Metropoli e sud
ZERO81
1. Quando si tenta di operare una rimozione della memoria storica del Sud, all’interno di un processo generale di rimozione o anche di invadente revisionismo, è in realtà un rimosso che, come un ceppo, dischiude la strada a molteplici storie intrecciate. Vale a dire: la storia dei sud è storia di invasione e di dominazione coloniale, di massacri e di distruzione delle capacità produttive, di costruzione dell’identità nazionale sull’inferiorizzazione culturale dei meridionali, di sfruttamento della forza lavoro mobile al Nord, di costruzione di un bacino di potere elettorale e criminale, di utilizzo del territorio e delle popolazioni come laboratorio di sperimentazione emergenziale (dal colera ai rifiuti, dal terremoto alla disoccupazione, dalle grandi opere alle privatizzazioni), infine come spazio di normalizzazione dei conflitti e di distruzione della cooperazione sociale informale. Il nostro è un tentativo perchè siamo convinti che ricostruire una narrazione della storia dei territori in cui viviamo, autonoma dall’insopportabile retaggio razziale e coloniale di cui è intriso il discorso pubblico, ci aiuti a riacquisire una capacità di autonomia e una consapevolezza più profonda nei conflitti dentro cui vogliamo stare, e delle comunità che vogliamo costruire.
Napoli rappresenta l’intersezione di questa ricostruzione dell’identità dei sud rispetto alla subalternità, con l’acquisizione della metropoli come spazio produttivo centrale dell’accumulazione capitalistica del post-fordismo e come complessione delle forme di vita che dentro di esso si sviluppano e si trasformano. Ricostruire una nostra narrazione storica significa non solo dare voce a chi fino a questo momento non ne ha avuta, vuole dire anche autorappresentare la propria identità partendo dalla nostra condizione di subalternità rispetto alla narrazione storica che l’Italia ha contribuito a produrre nei confronti del Mezzogiorno.
Il Meridione cosi non rappresenta meramente una macroregione geograficamente posizionata al sud del paese ma è anche una condizione, una forma mentis, che ha contribuito ad arricchire la nozione di “meridione”. Divenendo discorso, questa macroregione è diventata una sorta di laboratorio politico e sociale grazie al quale la borghesia italiana poteva realmente svilupparsi e affermare la sua posizione di “grande” all’interno dei circuiti produttivi e distributivi che si andavano sempre più globalizzando. Questo concetto, quello di meridione, tutt’oggi ha un effetto diretto che caratterizza chi vive i sud. Tuttavia c’è bisogno di ribaltare la nostra posizione di sub-alternità rispetto a tale narrazione: vale a dire, di scrivere le storie dei sud, e non la Storia, di rendere i conflitti parzialità di un insieme complesso e diversificato di narrazioni. Del resto, le narrazione per essere tali devono tener conto della nostra condizione precaria, quindi sub-alterna, della nostra condizione di esclusi rispetto alla narrazione dominante, che vuole produrre alterità per poi nutrirsene. Per ricombinare le identità e concatenare desideri, occorre disporsi nell’osservazione da un prospettiva di parte, un punto attraverso cui osservare quanto avviene intorno: in altre parole, essere coscienti che le rappresentazioni, in questo caso le narrazioni della metropoli e del Meridione, non sono il prodotto delle particolari esperienze, bensì di una in particolare, quella che produce sub-alternità per trarne legittimità.
2. La città di Napoli, con i suoi mille volti, con le sue contraddizioni, è sempre stata interpretata secondo una visione dualistica, di contrapposizione, nonché di svelamento degli stereotipi o dei pregiudizi che il gioco dell’alterità e della produzione della subalternità vogliono realizzati in termini scientifici o secondo presunte leggi neo-positivistiche.
Ciò che servirebbe, per una giusta analisi, sarebbe partire dal presupposto che il capoluogo campano è, prima di tutto, una città normale. Anche riconoscendo la dicotomia di paradiso e di inferno, di miseria e di nobiltà, di allegria e di disperazione, di tradizione e di innovazione, sebbene distante, e non poco, dalla realtà delle maggiori metropoli, Napoli incarna a tutto tondo la funzione di città contemporanea.
La città contemporanea, in estrema sintesi, è un organismo soggetto a rapide e profonde trasformazioni: il suo cuore pulsante (almeno all’origine) è individuabile nel Centro, la cui individualità è soggetta a forti alterazioni. Interi quartieri ristrutturano le forme edilizie e la composizione sociale, le periferie si dilatano (spesso riempite da vecchi abitanti dei centri storici costretti per vari motivi ad abbandonare le case natali per trovare locazioni alternative) anche attraverso determinate politiche pubbliche di natura emergenziale che destinano larga parte dell’intervento al recupero delle periferie degradate con il fine ultimo, in molti casi, di deportare parte delle popolazione in queste arterie secondarie della metropoli. Il processo al quale possiamo assistere nella quasi totalità delle città contemporanee è quello di una metropoli che tende a rinnovarsi costantemente giorno dopo giorno, nella struttura organizzativa come nell’aspetto esteriore, e vediamo così i vecchi centri riadattati e riedificati in rapporto a quelle che sono le nuove esigenze direzionali.
In linea di massima, l’estendersi delle grandi città, delle grandi metropoli, conferisce al suolo del centro un valore artificiale che spesso cresce enormemente, accompagnato, nella maggior parte dei casi, dal relativo incremento del valore degli immobili locati appunto all’interno del centro stesso.
Il centro di Napoli, dagli anni ‘80 ad oggi, ha registrato ondate di esodo e di controesodo che contano numeri esorbitanti considerando l’esigua estensione territoriale dell’area geografica a cui facciamo riferimento, nel ventennio successivo al terremoto dell’80 la popolazione residente nel cuore del centro storico è diminuita circa del 25%, andamento che è andato poi invertendosi nel corso degli ultimo 10 anni (si è parlato di ‘recolonoziation centripeta’ fenomeno nato a Barcellona).
La stratificazione così fortemente popolare delle strade di Napoli, del cuore di Napoli, se da una parte è figlia della storia interclassista della nostra città, dall’altra è il risultato di un lotta costante, di una resistenza quotidiana condotta dalla popolazione partenopea che ha imparato a riappropriarsi dal basso di ciò che le spetta attraverso svariate modalità, costruendo sempre nuove forme di (auto)organizzazione sociale e soprattutto economica.
3. Dentro questa rappresentazione della città, nei suoi interstizi di cooperazione del lavoro vivo, nelle sue molteplici e poroso pratiche di autorganizzazione sociale, possiamo ricostruire una nostra capacità d’intervento all’altezza dello sviluppo (e del non-sviluppo) dei conflitti dentro la crisi del biocapitalismo? Possiamo sentirci-parte, essere-classe, fare-comunità a partire da questa rappresentazione tutt’altro che liscia, ma costellata di contraddizioni, frammentata? E per andare dove? È questa la sfida che ci poniamo.
La pratica dell’inchiesta (del camminare domandando) ci riconsegna la non-linearità delle dinamiche sociali dentro cui siamo immersi, e quindi una capacità di orientamento che più che una bussola o un cielo stellato che indicano un punto cardinale rassomiglia a una mappa in continuo aggiornamento, che rappresenta l’andamento del terreno e dei passaggi sotterranei, e che va interpretata inventando ogni giorno sentieri che spesso conducono per larghi tratti nella direzione opposta a quella in cui istintivamente o razionalmente sentiamo di dover andare.
L’inadeguatezza più grande che sentiamo è coniugare la molecolare tenacia e la lentezza di questi percorsi di esodo che modificano scavando sentieri il paesaggio delle nostre esistenze e degli spazi e dei tempi che esse abitano (i nostri spazi sociali e percorsi politici) con la molare e schiacciante voracità e velocità dei processi di crisi che su questi stessi paesaggi si abbattono come acide piogge torrenziali capaci di scavare vallate in una notte e cancellare rifugi nel tempo di un’aurora (crisi, disoccupazione, debito, repressione etc.).
Inadeguatezza non appagata quando per qualche attimo o qualche tempo ci sembra di vedere moltiplicarsi quegli stessi sentieri di esodo attorno a noi percorsi da altri che s’incrociano coi nostri, e aprire di tanto in tanto ciò che sembra una strada (l’Onda, 14 dicembre 2010, la stagione dei referendum, etc.).
4. Dentro quest’inadeguatezza, nell’impossibilità di colmare questa sproporzionata disparità tra esodo e trasformazione sociale, costruiamo la nostra comunità e le nostre reti sociali fondate sull’elemento del conflitto.
Le contraddizioni che il capitalismo si porta con sé e che la crisi amplifica diventano lo spazio su cui innestare forme di resistenza e di contrattacco: dalla precarietà esistenziale che ci ha resi naturalmente insofferenti verso il lavoro salariato, all’abbandono degli spazi pubblici che definisce, accanto ad uno scenario di spartizione del bottino del territorio tra gli sciacalli della finanza e della rendita, uno scenario di riconquista del comune.
In un contesto storico come quello attuale, dove il neoliberismo più sfrenato non trova più alcun ostacolo, dove a dettar legge non è più la politica ma il mercato, dove a governare sono ormai le banche o i loro prestanome è chiaro che lo spazio stesso , quello pubblico, diviene un impedimento, ogni luogo che si interpone all’interno del processo di produzione capitalistica, o di comunicazione è uno ‘spreco’ e va eliminato.
L’atto della riappropriazione, nel capitalismo in crisi della rendita e del debito, rappresenta il ritorno dell’elemento del valore d’uso nel conflitto capitale-lavoro, salario-profitto nel fordismo, rendita/finanziarizzazione-riappropriazione/comune nel postfordismo. Il superamento della rivendicazione di reddito con la riconquista diretta di reddito non monetario.
Ma soprattutto la messa in comune dello spazio e delle strutture come mezzi di produzione. Più che socializzare, mettere in comune i mezzi di produzione. Ricostruire un nesso tra l’individuo e l’attività aggirando la mediazione del salario e costruendo le premesse per uno spazio di sottrazione dal debito come meccanismo di ricatto.