Moltitudine e potere dopo l’11 marzo 2011 in Giappone
di ANTONIO NEGRI
Questo è il testo di una conferenza tenuta a Tokyo da Toni Negri all’inizio di aprile, davanti ad un pubblico di militanti antinucleari. Dopo il marzo 2011 e il disastro ecologico e nucleare che il Giappone ha conosciuto, le tematiche sollevate in questa conferenza sono diventate centrali nella discussione politica dei vari gruppi che, chiamano se stessi, una “moltitudine” di soggetti resistenti.
È ben difficile per me entrare in questo argomento. Gli amici della International House mi hanno inviato alcuni DVD di documentazione del 11/3: davvero impressionanti, davvero difficile immaginare una sciagura tanto enorme. Tanto grande che sembra persino difficile inserirla nella serie di crisi durissime che dall’inizio del secolo XXI si sono a noi presentate. Nel periodo immediatamente successivo al 11/3 mi trovai a rispondere ad una intervista del Kyodo News e mi si chiese per cominciare se la tragedia determinata dal gigantesco terremoto-tsunami-incidente nucleare dei mesi precedenti non avesse posto, non solo il Giappone ma la nostra intera civiltà, a fronte della considerazione di come essa potesse ancora svilupparsi, senza una profondissima autocritica e la consapevolezza di un nuovo modo di coesistere con la natura… Eppure, da solo un decennio, i grandi teorici della globalizzazione avevano decretato, in maniera assai ottimista, che “la storia era finita”, e che in questa civiltà il progresso del capitalismo e le riforme fin lì realizzate avvicinavano la “felicità americana”; ma subito c’erano stati gli eventi terribili del 11 settembre 2001, poi la crisi finanziaria del 2008, infine questo sconquasso giapponese. Non ci ponevano questi eventi d’innanzi, piuttosto che alla perfezione ma al limite della nostra civiltà?
Poche settimane fa, Toyo Ito ha meritatamente vinto il premio Pritzker. Io l’avevo già scritto questa conferenza quando lo seppi. Il fatto è che la sua opera mi aveva molto impressionato l’anno scorso quando egli era stato premiato alla Biennale di Architettura di Venezia come autore della mostra Architecture. Possible here? dove aveva creato, con un gruppo di architetti, una Home-for-all per il Padiglione giapponese. Questi architetti avevano prima instaurato un dialogo con le vittime di Sandai, una città sconvolta dallo tsunami, per costruire un progetto di residenza che permettesse a quei cittadini di riutilizzare i materiali residuati della sciagura e di immaginare forme di vita comune; poi, assieme ad altri gruppi di cittadini, avevano creato il modello presentato a Venezia – erano abitazioni costruite con piloni di legno, riprendendo la concezione tradizionale giapponese nel mantenere in collegamento gli spazi interni e quelli esterni dell’abitazione; il progetto consisteva essenzialmente nel tentativo di unire, attraverso il recupero di materiali tradizionali, comuni consuetudini ed usi e nuovi modelli di residenza nel comune – rispondeva così all’interrogativo della Biennale su cosa fosse quel Common Ground sul quale appunto potessimo ricostruire la nostra civiltà. Si sentiva aria di speranza, in quell’opera, un respiro largo quanto larga era stata la sciagura e forte quanta era la potenza che ora quei cittadini mostravano nel ritrovarsi insieme per lottare e per produrre nuove forme di vita, comuni appunto.
Perché questo è il problema che in maniera sempre più impellente ci si è presentato in questo inizio del XXI secolo: come costruire forme di vita comuni, come assicurarne la consistenza e toglierle alla miseria ed alla paura, come organizzare la partecipazione alla costruzione del comune. Il problema non aveva infatti tardato a proporsi. Il fanatismo e il terrorismo nel 2001 cui son seguite guerre feroci, la grande crisi finanziaria e la distruzione di livelli di benessere che si pensavano indistruttibili a partire dal 2008, e infine questa vendetta – qui eseguita in Giappone – dalla natura contro lo sviluppo dell’energia atomica e dello “Stato nucleare”: non erano queste condizioni di radicale interrogazione sul destino della nostra civiltà? Chi avrebbe mai pensato di potersi trovare in questa estrema situazione? Come difendersi dopo aver nutrito l’illusione che la globalizzazione potesse determinare un nuovo secolo di cooperazione interculturale e di stabilizzazione delle strutture tecnologiche nelle quali il nostro mondo ora si presentava? E poi il dubbio: come immaginare ora che da questa situazione si potesse uscire positivamente? La domanda è radicale, esattamente come lo era quell’immaginazione di Common Ground alla quale il contributo giapponese alla Biennale di Architettura chiamava gli artisti. E non si tratta semplicemente di stabilire, a fronte di queste tremende evenienze, un katechon, cioè un limite che ci salvi da estreme conseguenze – si tratta con maggiore serietà e coraggio di inventare un nuovo mondo oltre la guerra, l’egoismo economico e lo sfruttamento indiscriminato della natura.
A fronte di questi problemi e delle istanze di rinnovamento che riusciamo ad immaginare, si aprono forme di vita spesso innovatrici e tuttavia fragili, che non di rado scoprono d’innanzi a sé resistenze durissime, talora insormontabili. Nella globalizzazione avevamo visto nascere una nuova forma di soggettivazione produttiva e politica che avevamo chiamato moltitudine. Della moltitudine avevamo detto che essa sarebbe stata capace di andare contro l’“individualismo proprietario”, affermando tuttavia la “singolarità produttiva” di ogni lavoratore e costruendo la dimensione comune delle istituzioni politiche. La moltitudine ci si presentava come un insieme di singolarità, capace di costruire una democrazia radicale dal basso e che insieme produceva, sulla base di un lavoro messo in rete e dunque virtualmente comune, la possibilità di una società ricca. Non c’era utopia in questa proposta – era lo stesso modo di produrre, dopo la crisi della modernità industriale, che prefigurava questa emergenza moltitudinaria. E non dimenticavamo che questa affermazione non poteva esser solo costituente: essa doveva essere anche destituente. Per esser forte la moltitudine doveva riconoscere il nemico. Ma dov’era questo nemico? Alcuni critici del concetto di moltitudine identificavano l’inimicità nella moltitudine stessa, nel fatto che essa si presentasse come folla, e ci confondesse nella paura che la folla sente e nella paura che essa evoca; altri, rifiutando questa denuncia, ritenevano tuttavia che la moltitudine (costruita dai nuovi modi di essere del lavoro cognitivo e comunicativo) potesse sempre dividersi fra moltitudine “buona” e moltitudine “cattiva”, mostrare un’irriducibile ambivalenza, proporre continuamente l’aggressività contro la solidarietà sociale e viceversa, gli inclusi contro gli esclusi, etc. – ed è su questo terreno appunto che nascevano quelle specifiche limitazioni al concetto di moltitudine, alla sua possibilità di fondare una vera democrazia, che abbiamo chiamato katechon. Ma non credo che queste obiezioni siano quelle fondamentali: sono obiezioni sensate, esse però non fanno che mettere in luce una banale ambivalenza politica, forse oggi più evidente e complessa ma sempre superabile quando la vita delle singolarità esce dalla solitudine e la polis si istaura. Sono dunque obiezioni che possono essere forti ma non riescono ad eliminare il concetto. Mostriamolo qui sotto, prima di affrontare la vera difficoltà che il concetto di moltitudine presenta e che forse proprio nel 11/3 trova la sua più alta dimostrazione.
Per quanto riguarda la prima obiezione, quella appunto che ci dice che la moltitudine può diventare folla impazzita, massa che fa paura, sembra a noi che essa possa essere respinta proprio considerando il modo in cui le teorie dello Stato e la pratica dei governi si sono sviluppate nell’ultimo secolo. È attorno a questo punto che vediamo realizzarsi la transizione dal moderno al post-moderno, dal governo alla governance, quando cioè la distinzione tra il privato e il pubblico, quella che mostrava lo Stato come unilaterale produttore della sicurezza pubblica in quanto garanzia della felicità privata (e tutto questo è stato esaltato e reso estremo dal neoliberismo) viene progressivamente annullandosi. Sono le grandi crisi economiche che rivelano come il mercato non possa costruirsi come legge della vita sociale; sono le lotte della classe operaia che impongono nuovi equilibri tra domanda e offerta economica e nuove politiche sociali che rendano più equilibrata la contrapposizione delle classi; sono la trasformazione cognitiva del lavoro e l’emergenza delle reti cooperative della produzione sociale che trasformano l’organizzazione politica della società. È su questo piano che la moltitudine non può più apparire come folla impazzita: la solitudine si è man mano ridotta da energia ed eroismo imprenditoriale in passione triste dell’individuo assoggettato alla norma sociale. L’individualismo è ontologicamente impossibile, viviamo nel linguaggio e nella comunicazione, la singolarità espressiva ed espansiva ha preso un vantaggio irrecuperabile sull’interiorità ombrosa ed improduttiva dell’individuo. Le scienze del governo hanno prima appreso che gli individui possono essere governati solo in quanto popolazioni; poi che potranno essere guidate solo giocando le relazioni intersoggettive e, meglio, in maniera finalmente democratica, recuperando dal basso ed esprimendo in maniera normativa i bisogni economici e le volontà politiche delle singolarità.
La seconda obiezione è più sottile e rifiuta alla moltitudine la possibilità della pazzia, del divenire folle in quanto folla: afferma tuttavia che l’interrelazione delle soggettività può esser sempre bloccata o soffocata e che son proprio le rotture di questi flussi comunicativi che possono provocare incidenti politici collettivi. Il bene e il male, lo si sa da tempo, son formati dai desideri delle singolarità, appunto nelle relazioni che si stringono fra di esse; non c’è bene e non c’è male se non appunto, come diceva Spinoza, quando si desidera qualcosa e si lotta per essa o quando non la si desidera e si combatte contro chi la desidera. È questo l’intrigo della moltitudine: dicono questi obiettori, la sua difficoltà è insuperabile – l’aggressività che domina nella definizione dell’utile e del disutile. Ma essi, mi sembra, dimenticano che il concetto di moltitudine risuona assieme al concetto di comune, e cioè che esso consiste prima di tutto nella presa di coscienza di quell’insieme produttivo nel quale noi viviamo e dal quale siamo prodotti, nel quale siamo immersi e a partire dal quale tutti insieme produciamo a-venire. L’intreccio di singolarità si riconosce qui nei grandi processi collettivi di produzione della soggettività. È ben vero che l’incontro può non avvenire, che il raccordo delle passioni può fallire, che il vivere in comune venga in qualche modo frantumato nello spazio e nel tempo, in identità posticce o in feticci ideologici – ma questo fiume scorre, talora violentemente, precipitosamente, certo, ma quando ritrova il piano e si arresta, allora espone il comune – sono solidarietà che vincono, trasversalità che emergono. Non è utile dividersi fra pessimisti o ottimisti per riconoscere questi processi: meglio semplicemente osservare che di volta in volta la costruzione del comune si costruisce sulle alternative e si consolida fermamente, ontologicamente, prima di riaprirsi al confitto ed al rinnovamento.
Ma vi è una terza obiezione che viene rivolta al concetto di moltitudine: essa si addentra nel biopolitico. Là dove la singolarità non è solo pensiero o produzione ma è anche corpo e vita, là dove la produzione delle soggettività è incarnata. Costruire la moltitudine nel comune non è solamente esprimere concetti politici o dispositivi di governo: è educare, organizzare il lavoro, amare, distribuire la ricchezza, etc.. Ed è qui che i limiti e le frazioni emergono, ed anche eventuali collusioni o sovrapposizioni, è qui che il materialismo si mette bruscamente in contatto con l’ontologia. Come organizza sé stessa la moltitudine, senza sacrificare l’autonomia delle singolarità? Come costruire la carne della singolarità nel corpo della moltitudine? Ma prima di scontrarci con questa obiezione, chiediamoci che cosa sia diventato e come si presenti il nostro nemico ed assumiamo l’11/3 come l’apice di quelle crisi che in questo inizio di XXI secolo abbiamo conosciuto: guardiamo cioè la catastrofe nucleare come riassunto degli squilibri e della crisi di sovranità politica e d’egemonia economica nel neoliberismo trionfante. Qual è la natura dello “Stato nucleare”? Dello Stato cioè che fonda la sua politica (non solo energetica) sullo sfruttamento dell’atomo, sul pesante rischio sociale che questa cultura interpreta, sugli equilibri finanziari – colossali e gerarchici – che questa tecnologia prevede? La natura dello Stato nucleare consiste nell’illusione di imporre l’“eccezione” sovrana in termini fisici, naturalistici, di plasmare l’“autonomia del politico statale” dentro questa insormontabile figura tecnica e quindi la garanzia del predominio del capitalismo dentro quella figura del potere. Qui la sovranità moderna si fa definitivamente biopotere post-moderno. Il dominio qui vuole marcare i corpi dei soggetti – non più semplicemente come faceva lo sfruttamento industriale del lavoro, classificando i soggetti nell’ordine della fatica o del merito, ma segnandoli nell’ingiunzione alternativa di vita assoggettata o di non vita, di pericolo o di morte. Con lo Stato nucleare il rischio mortale della guerra è stato introdotto nell’ontologia della vita. Non è dunque un caso che, non episodicamente, l’ostinazione nel proporre e riproporre la produzione nucleare si accompagni alla presa di coscienza della crisi di un potere sovrano (come oggi appaiono, nell’orizzonte della crisi globale, quello americano dopo le guerre mediorientali o quello giapponese dentro il riassetto dei poteri nel Pacifico occidentale); ovvero nella riaffermazione angosciata che un potere economico in low growth (la crisi finanziaria americana o la lunga decrescita giapponese) fa di sé stesso, dichiarando in maniera isterica, una autonomia ormai decaduta. Ciò coincide con il rifiuto a porre la moltitudine, cioè l’insieme delle singolarità che producono democrazia dal basso, al centro della ricostruzione politica: così la crisi si perpetua. In tal modo sembra chiaro che la potenza della moltitudine sia impossibile da affermare in una società nucleare.
Ma è – la potenza della moltitudine – capace di affermarsi in una società non più nucleare? In Germania e in Italia, ad esempio, la produzione di nuove centrali nucleari è stata impedita da dei referendum popolari ormai divenuti elementi forti nella politica democratica di questi paesi. Questo non significa tuttavia che la vittoria sul Leviathan nucleare abbia spalancato le porte all’affermazione del potere della moltitudine democratica. Vi sono tanti problemi che qui si aprono ed in particolare quei problemi che, implicitamente confermando l’ontologia della moltitudine, appaiono essere i più decisivi nell’attuale travaglio della democrazia occidentale: intendiamo con ciò la vicenda dell’”uomo indebitato”, dell’”uomo mediatizzato”, dell’”uomo impaurito” e dell’”uomo rappresentato”. In un recente scritto, Declaration, dopo la primavera del 2011, Michael Hardt ed io abbiamo raccontato queste figure: esse costituiscono dei paradigmi della crisi sociale in corso. Il primo (l’uomo indebitato) è il prodotto del dominio sociale che la finanza impone dopo che il salario ha smesso di essere il prezzo del suo sfruttamento individuale; il secondo (l’uomo mediatizzato) è figura fondata sull’alienazione che il potere dei media determina nello stringere le soggettività in un ordine globale di distorsione e di mistificazione della verità, dopo averle costrette a produrre valore con il cervello ed il sapere; il terzo paradigma (l’uomo securizzato) è la funzione dell’insicurezza costruita e continuamente riprodotta affinché i soggetti in ogni momento vivano nel terrore e chiedano protezione ad uno Stato che subdolamente proclama “l’uomo lupo per l’uomo”, sempre più paradossalmente e falsamente quanto più la produzione del mondo della vita dipende dalla potenza dell’associazione fra gli uomini – non più sulla proprietà privata ma sull’attività comune; ed infine il quarto modello (quello della rappresentanza politica) è stabilito su false norme di costruzione istituzionale nelle quali la rappresentanza dipende ormai solo da funzioni burocratiche e simboliche, alle dipendenze del dominio capitalistico. Forse è proprio quest’ultima declinazione che riassume l’interezza delle contraddizioni che oggi impregnano l’anima del potere, la nervatura del biocapitalismo. Sono il debito e la paura, la catastrofe che, portata all’interno della vita di ciascuno, nella carne della singolarità, toglie ogni verità e ogni ragione dell’obbedienza. L’obbedienza non è più un sapere e un affetto gioioso ma è una passione triste accompagnata da disperazione.
Perché la potenza della moltitudine si affermi, anche contro lo Stato Leviathan, abbiamo allora bisogno di una vera democrazia, una democrazia del comune. Noi lo sentiamo, questo sentimento del comune, generalizzato – quasi fosse una nuova espressione di diritto naturale – dietro ad ogni elemento di questa grande crisi. Tanto più dietro una catastrofe come quella dell’11/3, attorno alla quale ci intratteniamo, una vera e propria “scopa di Dio”, che cancella lunghi periodi storici, antichi concetti e ci fa piombare in una situazione di profonda incertezza e disorientamento. Ma anche di grande aspettativa. Dubbiosa, tuttavia, perché ci pone davanti ad un’incognita, al limite di un’esperienza di vita e di cultura: e poi, che cosa avverrà? È dentro questa esperienza che il concetto di comune può aiutarci nel discutere e nel progettare, con molta prudenza, un tentativo di uscita etica e politica dalla crisi attuale. Noi possiamo dare una definizione pratica al comune come lotta che conduciamo assieme, per modificare le leggi e le strutture (prima di tutto quelle tecnologiche comandate dal capitale) che ci tengono prigionieri. In specie, le tecnologie ci si presentano nella figura giuridica della proprietà – di quella privata delle grandi imprese e/o delle agenzie pubbliche o di quelle direttamente dello Stato. Noi siamo, davanti ad una crisi come quella dell’11/3, sconfortati dalle attività irresponsabili sia delle aziende private che quelle pubbliche. Non sarà solo la partecipazione diretta dei cittadini alla costruzione del comune che potrà aiutarci a risolvere questi problemi.
Qui si aprono enormi problemi costituzionali, perché nelle costituzioni moderne il comune non c’è, ci sono semplicemente il privato ed il pubblico che lo protegge. Dobbiamo quindi cominciare a pensare che, in una costituzione del comune, il concetto di proprietà non è più qualche cosa che investe e che forma le istituzioni, bensì qualche cosa che viene subordinato a delle finalità di uso e di gestione comune della produzione e della ricchezza. Ma qui il problema del comune diviene più difficile ancora da affrontare perché si pretende che la scienza e la capacità di expertise possano trascendere le pratiche del comune. Noi non lo crediamo e pensiamo invece che le recenti esperienze di democrazia diretta della moltitudine (che Michael Hardt ed io abbiamo per esempio descritto in Declaration) abbiano posto con saggezza e misura l’esigenza di riappropriazione sociale del sapere – come conseguenza, fra l’altro, dell’esercizio del sapere, fatto dalla moltitudine nella produzione.
Ma possiamo fare un passo in avanti. C’è, infatti, un’apertura oggi sempre più esplicita, oltre quel blocco che abbiamo segnalato: essa ci mostra come nella crisi del capitalismo la divisione fra “capitale costante” (e quindi capacità di comando del capitalista – e del suo Stato – attraverso la finanza, le macchine, le tecnologie, l’assoggettamento autoritario) e il “capitale variabile” (ossia la forza-lavoro sociale) stia indebolendosi a favore del “capitale variabile”. In quanto forza-lavoro cognitiva, esso si fa sempre più autonomo ed indipendente dal comando – perché la produzione cognitiva, piegata ai linguaggi ed ai saperi, mette gran parte della potenza produttiva nelle mani (e nel cervello) dei lavoratori. Oggi il “capitale fisso” (cioè la parte macchinica del rapporto di capitale, quella che determina agencement reciproco fra operatori e mezzi di produzione, come insegna Guattari) non è più semplicemente quell’organo fisico che assembla e assoggetta la forza-lavoro ma diviene piuttosto, sempre di più, un “bene d’uso”, strumento (parzialmente ma efficacemente) riappropriato dal “lavoro vivo”, una protesi delle singolarità. È evidente che qui il problema della struttura tecnologica si propone in maniera drammatica: fin dove la tecnologia può essere ricomposta nel corpo del lavoratore, divenire un suo prolungamento nella costruzione della realtà? E fin dove invece essa resta uno strumento di comando nelle mani del padrone diretto e, quindi, del capitalismo multinazionale, finanziario e di quegli Stati che sempre di più sono soggetti al potere globale ed incapaci di costruire nuove misure del lavoro, della ricchezza e del comune? Queste sono le questioni che oggi aprono problematicamente il concetto di moltitudine così come problematicamente definiscono il concetto del comune. E non è infatti un caso che il tema di una “moneta del comune”, cioè di una nuova misura monetaria che – segnando il valore cooperativo della forza-lavoro – lo confronti alla nuova divisione sociale del lavoro (e ne rappresenti dunque la dimensione comune), sia diventato oggi sempre più centrale nella discussione di coloro che stanno costruendo un programma per andar oltre il mondo del capitale.
Ed è qui che possiamo ritornare a quell’immaginazione di un Common Ground che Toyo Ito ha espresso con tanta forza nella sua costruzione di una Home-for-all. Questa sua immaginazione non è un’utopia del futuro ma una lama che incide sul nodo delle tecnologie possibili – in effetti, tagliando quel nodo, perché assume non lo sviluppo ma il comune come scopo della produzione fisica e della costruzione di forme di vita.
15 marzo 2013