Le Pussy Riot e il capitalismo post-sovietico
di DAVID RIFF
Alla vigilia del verdetto nel processo alla punk-band femminista Pussy Riot proponiamo un testo di approfondimento più complessivo sulla situazione russa. La dirompente perfomance della band nella cattedrale del Cristo Salvatore a Mosca non è infatti da leggere come un evento isolato: si inscrive dentro le mobilitazione di massa dello scorso autunno contro la rielezione di Vladimir Putin. Una critica radicale al “meraviglioso mondo del neo-capitalismo post-sovietico” e al modello della rappresentanza democratica che le Pussy Riot hanno saputo giocare in modo radicale.
[…] Le Pussy Riot sembrano aver davvero colpito nel segno. Hanno creato una rappresentazione volutamente equivoca capace di suscitare una “presa di coscienza” molto più ampia di quanto non hanno fin qui fatto gli slogan consapevolmente piatti e compassati dei movimenti di opposizione, anche se i timori che hanno reso poco incisivi quegli slogan non sono infondati. L’apparato repressivo è immenso. Sulla base di motivi giuridici traballanti, se non del tutto inesistenti è stata creata una task-force per catturare Maria Alyokhina e Nadezhda Tolokonnikova [due delle principali attiviste delle Pussy Riot] che, spogliate delle loro maschere si sono trasformate in due giovani bellissime mamme, che ora rischiano fino a sette anni di carcere.
Questa risposta estremamente dura ha suscitato moltissime critiche, e non solo da parte dei soliti. Anche figure eminenti della chiesa ortodossa russa si sono espresse in difesa delle attiviste chiedendo la più blanda punizione possibile e alcuni hanno ripreso le critiche delle Pussy Riot attaccando l’ipocrisia della loro stessa istituzione. Ma cosa ancora più importante, le Pussy Riot hanno alzato in modo inaspettato la sottorappresentata voce femminista nell’attuale contesto dei movimenti di opposizione, esprimendo “la crisi della rappresentanza” nella più decisiva modalità di genere. Una cosa questa che non ha solo a che fare con il machismo del presidente eletto che attualmente attraversa una crisi di mezza età, al pari di altri presidenti donnaioli, e come il neoliberismo globale nel suo complesso. Né riguarda esclusivamente ciò che il capitalismo contemporaneo in Russia ha fatto alle donne nel corso degli ultimi 20-30 anni: il modo in cui le ha sottoposte ad una forzata ridefinizione del genere, rimpiazzando quella cosa contraddittoria chiamata emancipazione sovietica (anche se implicitamente eterosessista e omofoba) con un consumismo dilagante in stile sciovinistico anni ‘50, sostenuto dal simulacro del patriarcato tradizionalista ripristinato nell’era di Internet.
Questa nuova dimensione di genere rispecchia altri processi di espropriazione e ri-soggettivazione che hanno avuto luogo nel corso degli ultimi 20-30 anni. Gli ex cittadini sovietici provenienti dalle repubbliche dell’Asia centrale – una volta soggetti del contraddittorio e dubbio (inter)nazionalismo offerto dall’Unione Sovietica – sono diventati lavoratori migranti subalterni provenienti da lontane dittature amiche, schiavi del lavoro (ri)produttivo e restano per ora del tutto assenti nelle riunioni dei movimenti di opposizione, non rappresentati, anche se probabilmente pienamente consapevoli dei benefici dell’attuale paternalismo rispetto ai più stridenti sistemi xenofobi di esclusione. Un altro di questi processi è quello della privatizzazione attraverso l’espropriazione (scambiata per corruzione) dell’intera Unione Sovietica che ancora inconsciamente esiste ed è riprodotta quotidianamente in quasi tutti i comportamenti istituzionale e in ogni rappresentazione. Questa sta riarticolando il suo vacillante sistema sanitario, il suo sistema educativo (una volta potente, oggi in rovina), i suoi quartieri residenziali e le sue reti di trasporto, trasformando il tutto in siti di continuo lavoro di riproduzione, espropriato e non riconosciuto, che continua su Facebook in un ciclo infinito. L’unica possibilità per combattere questo spettacolo è quella di lasciare che sia esso stesso a dire inconsciamente la verità: aumentando le sue contraddizioni con i suoi stessi mezzi e creando un gap in cui tutte le rappresentazioni volutamente equivoche di produzione e riproduzione possano produrre una vera e propria coscienza collettiva.
* Leggi il testo in versione integrale da “Chto Delat newspaper”: “A representation which is divorced from the consciousness of those whom it represents is no representation. What I do not know, I do not worry about”.