Quale costituzione per l’uomo indebitato?
di MARCO SILVESTRI
Tempo di crisi. Crisi economica, crisi dello stato, crisi della proprietà.
Lo spiegarsi del capitale di bolla in bolla (il capitale procede attraverso rotture o meglio mediante delle distruzioni creative che si concludono con le crisi Negri-Hardt, Comune, 148) ha dilatato i confini, reso inermi i governi (meglio, violenti esecutori di ordini nella ricerca di un introvabile ordine) sottoposti a commissari e troike. La finanziarizzazione ha reso evidente anche la crisi dello statuto della proprietà (ed è evidente che parlare di “proprietà” al plurale non risolve il problema).
L’incertezza di trovare un proprietario nell’intricato reticolo di cartolarizzazioni dei mutui sub prime, la pretesa di ravvisare una lesione del diritto di proprietà nel rifiuto degli stati di onorare il debito pubblico, elidono alla radice il fondamento del sacro ed inviolabile privilegio.
La società capitalistica è prima di tutto una società di possessori di merci. Ciò significa che i rapporti sociali degli uomini nel processo di produzione vi assumono una forma cosale entro i prodotti del lavoro che si riferiscono uno all’altro come valore. La merce è un oggetto in cui la concreta molteplicità utili, diviene soltanto il mero involucro cosale della proprietà astratta del valore, la quale si manifesta come capacità di commutarsi in altre merci secondo una proporzione determinata e tale qualità si presenta come inerente alle cose stesse in forza di una sorta di legge naturale che opera alle spalle degli uomini in modo completamente indipendente dalla loro volontà.
Ma se la merce acquista valore indipendentemente dalla volontà del soggetto che la produce, la realizzazione del valore nel processo dello scambio presuppone un atto consapevole di volontà da parte del possessore della merce. Dobbiamo dunque cercare i loro tutori, i possessori di merci.
Caduto in servitù dei rapporti economici che si costituiscono alle sue spalle nella forma della legge del valore, il soggetto economico riceve per così dire, in compenso – come soggetto giuridico – un raro dono: una volontà giuridicamente presunta che lo fa assolutamente libero ed eguale tra gli altri possessori di merci come lui (Pasukanis, la teoria generale del diritto e il marxismo, 159).
Ma cosa accade quando la legge del valore è saltata? Quando l’intera vita è posta al lavoro? Quando è possibile vedere la crisi annidarsi nello stesso rapporto di capitale, con il capitale che ha di fronte a sé delle forme della forza lavoro sempre più autonome, antagoniste e non gestibili (Negri-Hardt, op. cit. 289)?
Lo stato di crisi è il risultato del fallimento del programma neoliberista (fare dell’impresa il modello di qualunque relazione sociale) e della resistenza che la figura soggettiva da questi promossa (il capitale umano e l’imprenditore di se stessi) ha incontrato. É questa resistenza anche se passiva, che ostacolando la realizzazione del programma neoliberista ha trasformato il credito in debito. Se il denaro e il credito esprimono la loro comune natura di debito è perché l’accumulazione è bloccata è incapace di garantire nuovi profitti e produrre nuove forme di assoggettamento, non il contrario (Lazzarato, la fabbrica dell’uomo indebitato, 19).
La soluzione più accreditata per il capitale è fare della povertà e della precarizzazione una variabile strategica della flessibilità del mercato del lavoro è quanto dietro il ricatto del debito sta avvenendo in Italia, Portogallo, Grecia, Spagna, Inghilterra e Irlanda (Lazzarato, op. cit., 8), ciò in quanto il capitale non può più contare sulla promessa di una futura ricchezza per tutti come negli anni ottanta….per dirla con Marx può solo contare sull’estensione e l’approfondimento del plusvalore assoluto, ovvero un allungamento del tempo di lavoro, un incremento del lavoro retribuito e dei bassi salari, dei tagli ai servizi, della precarizzazione delle condizioni di vita e di impiego e sulla diminuzione della speranza di vita (Lazzarato, op. cit., 21).
Il diritto non è più norma dello scambio tra possessori merci quanto regime del conflitto debito/credito, con il capitale che si presenta come il Grande Creditore; attraverso il diritto si regolamenta la relazione creditore-debitore che esprime un rapporto di forza tra proprietari (di capitale) e non proprietari (di capitale).
Sostituito lo scambio con il debito, la costituzione vigente è quindi quella del capitale finanziario che si proclama creditore e che attraverso il ricatto del debito governa l’usurpazione della vita produttiva.
Nella misura in cui il sistema finanziario assume dimensioni sempre più ampie, la determinazione capitalistica delle condizioni di possibilità della vita diventa sempre più generale e compiuta (Negri-Hardt, op. cit., 21).
L’uomo indebitato come si pone nei confronti di questa nuova costituzione?
Lontano parente dell’operaio sociale rivoltato nella propria soggettività dalla ristrutturazione dei tardi anni ’70, l’uomo indebitato è anzitutto impresa (di se stesso, come ammoniva la pubblicità).
[Ogni essere umano ha adottato lo statuto dell’impresa a misura della propria vita. Il progressivo erodersi del welfare ha consentito (obbligato) l’assimilazione a tale forma di riproduzione sociale.
L’insorgere dell’uomo impresa rimanda direttamente allo sfruttamento da parte della finanza delle aree industriali dismesse: come queste furono oggetto di operazioni sempre più raffinate, procedendo dalla gestione del territorio in modo mafioso per giungere alle speculazioni finanziarie sui mutui che le gravano, parimenti il corpo operaio dismesso, sviò la propria auto valorizzazione (che passava “attraverso la conquista proletaria di reddito e che distrugge di volta in volta la legge del valore… momento di contropotere … di autodeterminazione di separazione della propria realtà di classe da quella che è la realtà della produzione capitalistica” Negri, dall’operaio massa all’operaio sociale, 142) rendendosi anch’egli oggetto di ristrutturazione)].
La completa immersione nello statuto dell’impresa (un modello antropogenetico) consente all’uomo impresa indebitat(o)a di sviluppare la propria attività trascendendo il lavoro e dispiegandosi su tutto il tessuto della vita. La limitazione conseguente all’assoggettamento alla costituzione dell’impresa, però rende tale lavoro immediatamente produttivo di valore catturabile (e catturato) dal capitale.
A questo punto, penso si possano trarre alcune prime conclusioni:
-) questo non vuol dire che non c’è nessuno a badare al negozio –il capitale globale non funziona senza una regolazione e senza un supporto giuridico e istituzionale (Negri e Hardt, op. cit. 276) peraltro questa guida si spiega mediante l’utilizzo di norme promananti di vari centri di interesse (dallo stato al WTO, dal FMI alla Comunità Europea, dalla “comunità dei giuristi” alla prassi commerciale più o meno “codificata);
-) esiste una costituzione materiale che si può ravvisare nello statuto dell’impresa che annega, nella captazione di valore e nella negazione della vita, la produzione del comune;
-) la creazione di ricchezza consegue alla precarizzazione e all’indebitamento dell’uomo impresa.
Le modalità concrete di sfruttamento della vita messa al lavoro impediscono (sono funzionali ad evitare che) la configurazione di istituzioni del comune.
La crescente autonomia dell’uomo impresa nei confronti del capitale e cioè la condizione che mantiene aperto il rapporto di capitale, si fonda su due elementi fattuali. In primo luogo si fonda sull’inedito ruolo del comune come base e a un tempo come prodotto della produzione. In secondo luogo, sull’eccedenza della forza lavoro precaria nei confronti del quadro istituito per sfruttarla.
Il soggetto precario (impresa-indebitata) tende come tale, nella produzione della propria vita ad eccedere il comando capitalista e le norme precostituite allo sfruttamento.
Si dà quindi, laddove l’eccedenza comporti esodo e rifiuto, il superamento della forma impresa, che perde i propri connotati di riconoscimento in senso economico e si rivela incommensurabile al capitale, ostacolando la captazione.
Non pare, quindi, possibile la realizzazione del comune attraverso il recupero di norme (di legge o “consuetudinarie”) che risultano poste proprio al fine dell’assoggettamento della produzione alla legge del valore.
Porsi all’interno di un sistema normativo che presuppone l’esistenza di merci e funzionale allo scambio tra proprietari (meglio tra creditori e debitori) comporta l’immediato reciproco riconoscimento, all’interno proprio di quella legge del valore che opprime il comune.
Occorre, forse, dare considerazione della possibilità di una transizione dal sistema impresa verso il comunismo, che proceda dall’esistente condizione di impresa indebitata stravolgendo il senso delle procedure (non mi sento di chiamare leggi quella sul falso in bilancio o sulla ristrutturazione dell’impresa in crisi) esistenti ed agendo su esse ne eroda la capacità di captazione.
Ogni stratagemma che riveli capacità di sottrazione dal rapporto di capitale mediante l’attualizzazione dell’autonomia potenziale della forza lavoro va accolto per procedere verso tale orizzonte.
Strutturare l’antagonismo del precariato (imprenditore del proprio nulla) verso la disponibilità degli strumenti “d’impresa” e delle relative norme che li disciplinano appare unica via verso questa transizione (che peraltro, proprio per la configurazione delle modalità attuale di sfruttamento appare già in atto).
Predicare il diritto all’insolvenza, l’ammissione ai benefici delle procedure concorsuali anche per i microimprenditori, imporre moratorie sul debito di studenti e precari, è da un lato comprensione della produzione diretta di ricchezza da parte delle singolarità, dall’altro -consentendo autonomia e autovalorizzazione delle stesse- mina il procedimento appropriativo e di riconducibilità della vita al capitale e con esso lo stesso statuto dell’impresa [con doveroso ricorso all’approccio riformista si potrebbe affermare: così le banche hanno voltato le spalle alla loro imprescindibile funziona di cessione di credito ai privati e alle imprese dedicandosi ad attività di speculazione finanziaria nocive e prive di utilità sociale . e’ ora non di distruggere le banche ma di prendersele, perché possano adempiere alle fondamentali funzioni che sono in via teorica le loro (Chesnais, debiti illegittimi e diritto all’insolvenza, 21)].
Possono questi strumenti assumersi quali istituzione del comune?
Qui non c’è organicità né mito, qui non c’è generalità né improvvisazione; qui c’è l’intensità di un rapporto tra ricchezza e miseria che non vuol risolversi e che si sente scandaloso per il fatto che tutti i termini qui sono ormai rovesciati. Ricchezza prima che miseria, desiderio prima di bisogno. C’è separazione che è voluta ma che si esprime in potente volontà di scontro, c’è rottura che lancia continuamente ponti di volontà distruttiva contro la realtà, c’è desiderio che riesce ad essere disperazione. C’è insomma una positività che comanda il negativo (Negri, il dominio e il sabotaggio, ne libri del rogo, 283).
La ributtante negazione di sé che fu il farsi impresa non è stata rinuncia al desiderio, ma escamotage di sopravvivenza che l’operaio indusse al capitale e non viceversa (pur nello sviamento della potenza operaia).
Attraverso questo mezzo persiste (e si impone) la capacità della moltitudine, fondata sul comune, di eccedere i limiti del potere.
La “difesa” del comune rileva unicamente laddove tale difesa sia costitutiva della salvaguardia della produttività di vita, se comporti nuove solidarietà e cooperazioni che l’uomo indebitato, trasversale alla società nel suo insieme richiede.
Ma è una difesa che trascende la resistenza, la conferma e il riconoscimento di ordini preesistenti. Alcun supporto utile può venire dalla consuetudine che, per essere tale deve essere convinzione di un agire reiterato nel tempo (un “tempo” nemico e che si spera con il suo male finirà). Occorre invece realizzare comportamenti positivi che possano istituzionalizzarsi, affermandosi (questi sì) nel senso della convinzione della loro necessità e quindi di una nuova giuridicità.