Quattro sensazioni “a caldo” sullo sfondo delle elezioni venezuelane
di DIEGO SZTULWARK
1. Le elezioni venezuelane hanno segnato una sconfitta. Per fortuna non così tragica da consegnare il governo a Capriles. Tutto indica, però, che il “post-chavismo” ha cominciato a prendere forma a livello regionale.
La strategia sembra essere quella di svuotare lo spazio BRICS di ogni retorica emancipatrice. Sembra impossibile non sospettare che la movida che ha trasformato Bergoglio nel Papa latinoamericano giochi un ruolo in tutto questo. Non c’è economia senza soggettività: si tratterebbe, in questo caso, di trasformare il conflittuale processo di integrazione sud-sud in un asessuato amore per i poveri. In questi giorni, il passaggio per Buenos Aires di Gianni Vattimo sembra aver allineato in tale direzione: cancellare la marca di insurrezione per parlare, ora, di valori cristiani. Lo stesso Maduro ha intrapreso questo cammino nel discorso di domenica sera.
Ecco che il “neo-sviluppismo” avanza oggi per ciò che è: una riorganizzazione geopolitica a livello globale sostenuta da una crescita macroeconomica che, senza mettere in discussione le gerarchie né le diseguaglianze, genera un’inclusione attraverso il consumo. Non è che non ci siano trasformazioni importanti. Solo che queste derivano dalla configurazione stessa del BRICS e si perde la prospettiva emancipatrice. In tal quadro, e senza sapere come procederà il processo venezuelano, le elezioni risultano inquietanti.
2. Nella serata di domenica scorsa, il programma TV di Lanata[1] ha trasmesso un rapporto su un supposto caso di corruzione nella cerchia più intima del governo argentino. Il modo di costruire l’informazione e il trattamento dei simboli politici sono stati spietati. La fluidità con cui si passa dalla denuncia alla condanna, la mancanza di ogni considerazione nel dire “ladro” al fantasma di Néstor Kirchner che parla dal cielo, rivelano una disaffezione brutale circa i simboli politici del presente. Gli effetti immediati di questa operazione puntano ad anticipare le cacerolas bastardas[2] di giovedì prossimo e a nutrire l’opposizione elettorale.
Nel frattempo, la povertà – non esattamente francescana – dell’opposizione, la sua mancanza di immaginazione per strappare vantaggi su qualsiasi “scivolone” del governo ci porta a chiederci se non sia precisamente Lanata il nostro Capriles. Il tizio è l’unico effettivo creatore di immagini lontane dalla narrazione e dall’affettività del kirchnerismo. Quelli che pensano che Lanata rappresenti il “male” possono fare sonni tranquilli, dato che i suoi “golpe” non trovano, per il momento, una traduzione elettorale. I più credenti, coloro che credono che il kirchenrismo in blocco sia “buono”, possono sentirsi personalmente offesi. Senza adottare questo punto di vista moralistico – che impoverisce il campo politico – a spaventare di Lanata è, in primo luogo, ciò che egli stesso rende manifesto: quel tipo di operazioni illegali, che siamo abituati a pensare come inevitabili in ogni governo, può coesistere con la politica senza recare danno ai processi di costruzione della legittimità a condizione che sappiano rimanere nascosti, dissimularsi; a condizione che appaiano come puro rumore, crimini non localizzabili.
In secondo luogo, a spaventare di Lanata è la sua inserzione in una logica canaglia: quello che alla fine si potrà verificare come vero di un enunciato (lo vedremo) non fa che alimentare uno schema cinico e post-politico che promette solo di intensificare, con successivi scandali giornalistici, una guerra tra miserabili.
3. La differenza domenica l’ha fatta il CELS[3] che è riuscito a riaprire la questione sulle misure cautelari[4] che il governo non voleva mettere all’ordine del giorno come parte del pacchetto destinato a riformare la giustizia. L’argomento proposto (è legittimo che i potenti esproprino lo stato ricorrendo alle misure cautelari, mentre non è legittimo espropriare i “condannati della terra”) mostra l’esistenza di un modo di produzione politica molto diversa da quella elettorale, la via privilegiata, se non esclusiva, per buona parte dell’attuale militanza. Horacio Verbitsky, direttore del CELS, ha messo in gioco, in questo caso, l’esistenza di un tipo di influenza e di una capacità di aprire discussioni rilevanti, di cui non dispone quasi nessun altro settore del kirchnerismo (per non parlare di legislatori, sindaci e governatori che hanno una legittimità elettorale propria).
C’è qualcosa di questo tipo di autonomia pratica – abbastanza eccezionale – che in alcuni momenti riesce a evitare la chiusura automatica di chi partecipa al dispositivo di governo. Al di là della figura del suo direttore, il CELS costruisce questo tipo di legittimità a partire dal suo lavoro costante con problemi che hanno a che vedere con la conflittualità sociale. Questa articolazione tra pratiche ed enunciati rende possibili momenti luminosi come questo, dove si interviene politicamente senza confermare le dinamiche della polarizzazione o, ancora più interessante, non si cerca di correggere la direzione del governo per cercare si salvarlo dai suoi stessi errori, ma a partire dalla coerenza con la propria traiettoria di inchiesta giuridica e politica. Questo episodio ha qualcosa da insegnarci.
4. A livello regionale e a livello nazionale è fondamentale dare corso a un altro tipo di narrazioni, è necessario, come mai prima d’ora, articolare processi pratici ed enunciati politici. Al di là del linguaggio giuridico, militante e giornalistico – che riporta qualsiasi fatto al suo proprio codice – è necessario riprendere la capacità di formulare in modo più aperto e meno conservatore i problemi del nostro presente. Questa capacità non si suole esercitare all’interno del governo (quella del CELS è una rara, anche se non unica, eccezione) e sarebbe quasi impossibile cercarla nelle espressioni della cosiddetta “opposizione”.
Queste narrazioni non possono eludere una nuova violenza che circola nei territori. La denuncia e la catastrofe sono pessime istanze per dar luogo a una riflessione di una qualità differente. Entrambe finiscono per rafforzare il paradigma gestionale del controllo.
Non siamo pochi a cercare di immaginare la necessità di iscrivere gli episodi che parlano di una nuova conflittualità al campo rinnovato dell’inchiesta militante, a partire dall’ipotesi seguente: la nuova conflittualità sociale si comprende molto meglio all’interno della macchina finanziaria del governo, che agisce sul sociale, sui processi di produzione del comune. A questo riguardo, poco importa che “il finanziario” in sé stesso non produca valore: i processi di valorizzazione capitalistica funzionano oggi a partire da dispositivi propriamente finanziari, di cattura della ricchezza e di gestione della economia e della soggettività.
Si è detto fino alla noia che l’America latina è il luogo di un’anomalia. Ciascuno degli aspetti che la caratterizzano co-funzionano (come macchina, direbbe Guattari) intorno al “finanziario”. Questa modalità globale di appropriazione e di governo della ricchezza sociale (vale a dire, generata collettivamente) regola la produzione di valore in un modo sempre più esterno al processo di valorizzazione comunitaria. Tale “esteriorità” è astrazione e determina, rendendoli coatti, i processi di produzione/riproduzione del comune, sottomettendo la trama collettiva della produzione di vita a meccanismi di valorizzazione del denaro e alla spoliazione delle risorse sociali del benessere.
Parliamo di “inchiesta”, però non nel senso universitario (o giuridico o giornalistico) del termine. Queste inchieste cercano di dare conto di ciò che succede nella dimensione “visibile” dei fenomeni (vale a dire, le regolazioni esplicite, la normativa legale, la legittimità cosi come organizzata nell’opinione pubblica). Se tutto ciò rappresenta, come è noto, il 50% del fenomeno sociale, ci troviamo davanti al dilemma seguente: o chi chiudiamo su ciò che si può conoscere, disconoscendo tutto quello che permane oscuro al sapere; o ammettiamo piuttosto che le conoscenze prodotte, per puntuali che siano, non danno conto della totalità della macchina del potere.
Tra coloro che si arrischiano a fare un passo in più nell’inchiesta, seguendo la realtà nei suoi oscuri sdoppiamenti, si pone la questione dei segni, episodi tragici (o morbidi) che ci indicano lo stato attuale del corpo sociale senza fornirci una conoscenza delle relazioni che spiegano questi fenomeni. Una serie di assassinii nel Conurbano di una città del sud della regione opera come segno, richiesta di attenzione.
È il cammino che ha seguito Rodolfo Walsh mezzo secolo fa ed è la via che ci propone oggi la antropologa Rita Segato (in un testo di prossima uscita per i tipi di Tinta Limón) nel presentarci l’ipotesi della violenza espressiva. A differenza della “violenza strumentale”, necessaria alla ricerca di un certo fine, la violenza espressiva ingloba e concerne relazioni determinate e comprensibili tra corpi, persone e forze sociali di un territorio.
Si tratta di una violenza che produce regole implicite, attraverso cui circolano piani di potere (non legali né espliciti, però si iper-effettivi). In altri momenti, in molti abbiamo parlato di “inchiesta militante”. Il nome non ha importanza. Ciò che importa, al contrario, è che nel porsi certi tipi di domande ci troviamo sempre più portati a interpretare questo tipo di segni, a leggere in essi la lotta di nuove forze nei territori, l’espressione della natura duale, di una macchina sovrana che si sdoppia permanentemente in regola ed eccezione, gerarchia e differenza. In questo sdoppiamento – che si osserva in quasi tutte le istituzioni di regolamentazione, dalle banche alla polizia – funziona ciò dobbiamo sviscerare: la magia e la forza con cui i dispositivi di controllo identificano e sussumono le macchine da guerra nei territori, nell’economia.
Si tratta di creare una nuova sezione nel nostro pensiero, per strappare dalla pagina delle “cronache poliziesche” il trattamento di questi problemi (che sono monetari, sociologici, soggettivi, corporei e molti eccetera): fare dell’inchiesta l’occupazione di nuovi detective (selvaggi)[5] che situano su questo livello la cifra del nuovo conflitto sociale che ricorre il continente.
[1] Giornalista di fama e fondatore di “Página12” che nell’ultimo periodo è passato a gestire un programma televisivo in prima serata in uno dei canali di proprietà del gruppo “Clarín” (oltre che una rubrica settimanale nello stesso giornale) diventando uno delle più importanti voci anti-kirchneriste.
[2] Si veda: https://uninomade.org/cacerolas-bastardas/.
[3] Centro de estudios legales y sociales di Buenos Aires.
[4] Il 7 dicembre 2012 la corte suprema argentina ha respinto il ricorso del governo contro la sospensione cautelare dell’articolo 161 della Legge del Servizio di comunicazione audiovisiva (Ley de Medios) che fissa il numero massimo delle licenze nell’ambito di media. L’articolo era stato impugnato dal gruppo Clarín, che supera abbondantemente il numero di licenze dn esso consentite.
[5] Allusione al noto romanzo di Roberto Bolaño, I detective selvaggi (1998), Sellerio 2009.
* Traduzione di Maura Brighenti. Pubblicato su http://anarquiacoronada.blogspot.it/2013/04/sensaciones-apresuradas-sobre-anteayer.html