Sperimentazione
di JUDITH REVEL
Se il tema dell’“esperienza” ha da sempre fatto oggetto di nutriti dibattiti teorici , e se la parola è riconosciuta come appartenente al vocabolario della filosofia, la nozione di “sperimentazione” è per molti versi molto meno facile da usare – a meno che non la si riferisca a quel tipo di interrogazione filosofica specifica che, nell’epistemologia, analizza i modi di funzionamento e le pratiche scientifiche. Ma che cosa succede quando si tenta di introdurre una nozione come quella di sperimentazione nella riflessione politica? Per il senso comune, una politica degna di questo nome non è forse l’esatto contrario di ciò che potrebbe implicare la sperimentazione se essa – ben lungi dal senso che essa possiede nella ricerca scientifica, dove rappresenta un efficace meccanismo di validazione e/o di invalidazione delle ipotesi – valesse invece come tentativo, un sondaggio, un bricolage?; insomma: come il piede incerto di chi avanza a tastoni in terre sconosciute per vedere fino a che punto sia in realtà possibile avventurarsi? Perché abbiamo tanta difficoltà ad immaginare che la riflessione e la pratica politiche possano sperimentare? E se ciò potesse verificarsi, che cosa si tratterebbe invero di sperimentare?
Probabilmente, la nostra incertezza deriva dal fatto che la sperimentazione sia rimasta prigioniera di una vecchia idea in virtù della quale dobbiamo innanzitutto riconoscere i nostri limiti: per agire bene, bisogna prima di tutto conoscere; e per conoscere, è necessario aver tracciato una linea di separazione fra ciò che ci è stato concesso di possedere attraverso la conoscenza e ciò che, al contrario, non può in nessun caso diventarne l’oggetto. Troppe volte, abbiamo considerato la sperimentazione come un rifiuto di ciò che era “ragionevole”, abbiamo denunciato il suo idealismo, il suo irrealismo. Lo abbiamo fatto in nome di un pragmatismo sovente divenuto vero senso comune in quell’economia degli uomini e delle donne che si chiama l’arte di governare. Abbiamo denunciato la sperimentazione come un rischio inutile, come la mesa in pericolo delle nostre certezze più necessarie, come lo sconvolgimento di un ordine che avevamo prestabilito: a quale scopo procedere a tastoni laddove ci si può appoggiare sulla presenza rassicurante di riferimenti e di linee, di griglie concettuali e di punti fissi? Insomma, abbiamo fatto della sperimentazione l’esatto opposto di ciò che si è imposto generalmente come l’enjeu della politica: una buona gestione delle cose esistenti; oppure, per dirla altrimenti, un’accettazione misurata delle necessità del mondo. Abbiamo affidato agli scienziati il compito di sperimentare nei campi della ricerca fondamentale, ma abbiamo fatto in modo che la nostra esistenza concreta – e la politica come arte di organizzare il vivere-insieme – ne fosse paradossalmente protetta.
La separazione delle tre domande: “che cosa posso conoscere?”, “che cosa debbo fare?” e “che cosa mi è permesso sperare?”, così familiari ai lettori di Kant, continua ad irrigare il pensiero contemporaneo. Conoscere, agire e sperare implicano tre spazi di riflessione distinti. Eppure: cerchiamo di pensare a rovescio. Conoscere, agire, sperare: laddove non vogliamo che si sovrappongano, la loro disgiunzione segna precisamente, come in negativo, il luogo vuoto – ma sempre possibile – della sperimentazione politica; poiché se la sperimentazione può avere ancora un senso per la polis, è proprio quello: conoscere, agire, sperare in un solo gesto; sapere, modificare ed inventare insieme.
Michel Foucault, alla fine della sua vita, è ritornato sul sogno folle di far valere nella nostra vita – vale a dire sia nella pratica della filosofia che nei gesti quotidiani a partire dai quali costruiamo le nostre esistenze – proprio quella sperimentazione. E l’ha fatto, in un gioco assai ironico, proprio commentando un testo di Kant. Non era il Kant delle tre Critiche, tuttavia: piuttosto colui che, affascinato da quella incisiva rottura che rappresentava dalla metà del ‘700 il pensiero dei Lumi, tentava di dire a modo suo quello che il secolo cercava di inventare. “Che cos’è l’Illuminismo?”, il testo kantiano, data nel 1784, cinque anni prima della Rivoluzione francese. Duecento anni dopo, nel 1984, Foucault, lettore di Kant, riscopre quel che ne faceva l’enorme valore nel momento stesso in cui quel testo era stato scritto: il tentativo di leggere, nella propria attualità, qualcosa di inaugurale e di nuovo – la Ragione pervenuta alla sua maturità. Ma egli vi legge anche (e probabilmente immette tanto quanto discerne) la speranza di una sperimentazione politica, di un’esplorazione dei possibili, di un desidero di libertà selvaggia (farouche) oltre le costrizioni e le determinazioni che l’epoca, malgrado tutto, impone. Questa sperimentazione è quella che lo stesso Kant, una volta ricaduto il tumulto del 1789, quasi quindici anni più tardi rispetto al primo testo, caratterizzerà come un desiderio di rivoluzione, vale a dire allo stesso tempo come una disposizione dell’umanità intera e come una novità irriducibile alle determinazioni storiche nelle quali essa si dà: “un tale fenomeno nella storia della umanità non si dimentica, perché esso ha rivelato nella natura umana una disposizione, una facoltà di progresso tale che nessuna politica avrebbe potuto, perfino con le più grandi sottigliezze, dedurre dal precedente corso degli eventi” (I. Kant, Il conflitto delle facoltà).
La rivoluzione sperimenta in quanto procede a tastoni e apre vie inedite. E quand’essa pure ricadesse “dans l’ornière” – l’immagine è dello stesso Kant; e quand’anche si macchiasse di derive o fallisse in modo cocente, essa comunque testimonia la potenza di uomini e delle donne a inventare, dall’interno del proprio mondo.
La sperimentazione è precisamente questa questione del campo attuale dei possibili. Ben lontana dall’utopia – che non lavora all’interno del “già-dato” delle cose presenti – essa tenta la scommessa al contempo dell’analisi di ciò che è, e della sua trasformazione radicale. Non si tratta né di ridursi alla mera registrazione delle necessità di un mondo subìto né di sognare un altro mondo, bensì di cambiare questo mondo qui. Una politica della sperimentazione è dunque agli antipodi della rinuncia (della quale il pragmatismo rappresenta troppo sovente una bella maschera). Ma lo è altrettanto di ogni sterile sogno del ritorno ad un Eden perduto, o della variante che ci promette invece un “ridente avvenire’ o un “luminoso futuro” – insomma di ogni orizzonte inafferrabile eppure sempre riaggiornato. Se deve essere messa in pratica, questa pratica sperimentale della politica “non dedurrà dalla forma di ciò che noi siamo ciò che ci è impossibile fare o conoscere; ma libererà dalla contingenza che ci ha fatto essere quel che siamo, la possibilità di non esser più – non fare più, non pensare più – ciò che siamo, facciamo o pensiamo” (M. Foucault, “Qu’est-ce les Lumières?”). Insomma, è un’attitudine nei confronti del mondo che fa di ciascun uomo colui che allo stesso tempo diagnostica la propria situazione e cartografa le proprie determinazioni, e colui che inventa una differenza possibile.
Di qui la politica si trova in gran parte riqualificata e si potrebbe quasi parlarne nei termini che Foucault usa a proposito dell’attitudine critica in Kant, nel momento in cui essa investa la storia: “non bisogna concepirla come una teoria, una dottrina, e neppure come un corpo permanente di sapere che si accumula; bisogna concepirla come un attitudine, un ethos, una vita filosofica dove la critica di ciò che siamo è insieme analisi dei limiti che ci sono posti e tentativo del loro superamento possibile”. La politica come sperimentazione non è altro che questo doppio movimento d’inchiesta et d’individuazione delle forme e dello stato presente delle cose, da un lato, e d’invenzione di possibili inediti, dall’altro. Certo, essa non esclude né gli errori né i fallimenti – ma la semplice accettazione di ciò che è, non ci ha – a sua volta – mai preservati dagli orrori della storia. Essa è su questo bordo estremo del tempo sul quale, in ogni momento, uomini e donne, pur costruiti dalla storia, ne diventano gli attori.
Oggi, questa sperimentazione politica è al cuore di una serie di realtà che, a loro modo, dicono la forza dell’intuizione kantiana e confermano le giuste analisi di Foucault. Poiché la storia non è immobile, la grammatica e le istituzioni politiche della modernità sono in pieno cambiamento. Tutto si muove: il concetto di cittadinanza e la realtà materiale delle frontiere nazionali, la rappresentanza politica intesa come cemento delle democrazie moderne e le forme “estese” dell’azione politica collettiva (partiti e sindacati), il sentimento di appartenenza e la definizione di quel che chiamiamo “sfera pubblica”, l’estensione della governance statale su spazi che noi avremmo probabilmente considerato, ancora qualche anno fa, come di sola pertinenza del privato, e l’emergenza, ben al di là della semplice divisione tra pubblico e privato, di una nuova qualità per taluni beni – né individuale, né statale; né privata, né pubblica, ma comune. C’è tutto da reinventare, dall’interno di un mondo che fu messo in forma da quattro secoli di modernità e che resta ancora in gran parte moderno. Dal recente fenomeno degli indignados a quello di differenti movimenti Occupy, dalle sperimentazioni di democrazia partecipativa all’affermazione sempre più varia di forme di collettivo – utenti di servizi, abitanti di quartiere, lavoratori, sans papiers, difensori dell’ambiente… – e di coappartenenza, tutto incita ormai a ripensare i passaggi obbligati dell’azione politica: come prendere la parola, come farsi ascoltare e come ascoltare gli altri, come organizzarsi, come prendere una decisione, come farsi capire, come agire, come gestire un rapporto di forza. È qui che bisogna pensare oggi la sperimentazione: certamente un andare a tastoni, e molto spesso un bricolage; ma mai senza, prima di tutto, avere analizzato localmente, puntualmente, ciò di cui si tratta di staccarsi; mai senza aver compreso ciò di cui il mondo era fatto, in modo da poterne costruire un altro.
La sperimentazione è, da questo punto di vista, il contrario della politica come sistema: si annida nelle cose minuscole, si costruisce dal basso, si ripete e ricomincia, balbetta ed impara, condivide e si arricchisce, si corregge e si rinforza; e i suoi effetti di realtà sono spesso meno importanti di ciò di cui essa testimonia: quel che Foucault chiamava, in maniera divertita, “il lavoro indefinito della libertà”.
* Tratto da: Dictionnaire politique à l’usage des gouvernés, a cura di F. Brugère a G. le Blanc, Bayard, Paris, 2012. Traduzione di Toni Negri.