Taranto e l’Ilva: la tempesta perfetta
di FRANCESCO FERRI
Ci sono un sindaco, un prete e un poliziotto (della Digos). Sembra l’incipit di una banale storiella, invece è appena un frammento del lungo elenco dei variegati personaggi compiacenti alle esigenze del più grande impianto siderurgico d’Europa. Una fitta trama di contatti, ammiccamenti e incontri, riportati nell’ordinanza emessa dal Gip Todisco che lunedì scorso ha disposto il sequestro dell’acciaieria e numerose misure cautelari. La risultante di tali torbide connessioni è cosi cupa da evocare immediatamente, quasi come riflesso incondizionato, le oscure nubi che da mezzo secolo, senza soluzione di continuità, avvolgono la città dei due mari.
Allo stesso tempo però un dato politico preciso, chiaro e netto riesce a dominare la scena, offrendo l’occasione per effettuare un’utile ricognizione delle relazioni di governance nella Puglia migliore vendoliana: è proprio l’Ilva a dettare – a volte addirittura nel senso letterale del termine – l’agenda politica alla rappresentanza politica ionica.
Le relazioni pericolose. È Giorgio Archinà il protagonista delle numerose intercettazioni disposte dalla procura. L’ex responsabile dei rapporti istituzionali dell’Ilva, su mandato della stessa proprietà del siderurgico, con elegante disinvoltura riesce ad imporre, comporre e disfare a suo piacimento, sicuro della compiacenza – derivante (anche) da evidente sudditanza psicologica – di tutti i personaggi della politica locali con i quali interloquisce.
Proprio qui risiede forse la chiave di lettura più interessante delle ultime vicende riguardanti l’Ilva di Taranto, sicuramente più appassionante del dibattito tutto schiacciato intorno ai profili penali (ancora tutti da valutare) e del noioso e moralistico tema (per altro assolutamente inflazionato, a queste latitudini) del tradimento di Vendola e del sindaco Stefàno ai danni della città. Tutta la rappresentanza politica appare prostrata, inerme, succube – ma non per questo colpevole, sia chiaro – nei confronti delle proprietà dell’industria dell’acciaio.
Un meccanismo di certo non nuovo, ma che qui si materializza con un’evidenza tale da richiedere immediatamente un’ampia riflessione collettiva. Chiunque finisca nella rete dell’Ilva ne rimane soggiogato, stravolto, deformato, ed il centro materiale di assunzione della decisione politica risulta essere ben lontano da quello formale (consigli comunali, giunte, riunioni politiche, e cosi via), risiedendo invece (anche) negli incontri e nei contatti tra organi rappresentativi e proprietà industriale.
È utile precisare che non si tratta di un modus operandi della governance esclusivamente legato al territorio pugliese: proprio in queste ore prende corpo l’affannosa rincorsa del ministro Clini nei confronti di una possibile soluzione (con decreto) della vicenda Ilva, che nelle intenzioni del ministro consentirebbe – perfettamente in linea con i desideri e le aspettative della dirigenza Ilva – di riprendere immediatamente la produzione nello stabilimento sotto sequestro. Quasi superfluo sottolineare che l’esuberante iniziativa politica del ministro è sostenuta da un ampio (e trasversale) fronte, che passa dal ministro Fornero, dal commissario Ue all’industria Tajani e dalla responsabile all’ambiente del Pd Stella Bianchi.
Nell’Europa dell’austerity i centri di produzione della ricchezza economica – siano essi capitale finanziario o le ultime retroguardie del vecchio fordismo – impongono l’agenda politica e nessuna rappresentanza politica – compresi il sindaco pediatra, il governatore poeta, il grillismo diffuso, la destra reazionaria e il progressismo europeo – ci (e si) salverà.
Avanti come? Avanti dove? Dal punto di vista delle mobilitazioni, la serata di lunedì e la giornata di martedì si lasciano alle spalle sensazioni ambivalenti e il retrogusto dell’incompiuto. Nella mattinata successiva all’emissione dell’ordinanza, un partecipato (oltre cinquemila operai) e combattivo corteo ha sfilato all’interno dello stabilimento, con alla testa un autocarro di proprietà dell’Ilva (preso in prestito dagli operai ed utilizzato come simulacro dell’ormai famoso apecar simbolo delle rivolte ioniche degli ultimi mesi). Lo stesso corteo si trasformava poi in assemblea, sotto la sede della direzione Ilva (in stato di totale abbandono ed occupata dagli stessi operai). Segno di un’ampia disponibilità alla mobilitazione, che per ora però fatica a confrontarsi (nonostante il costante sforzo di un importante nucleo operaio) con il punto di vista dell’altra parte, non operaia, del 99% della città che anch’essa annaspa nella drammatica crisi (non solo ambientale) tarantina.
Allo stato attuale le rivendicazioni della media degli operai Ilva restano infatti legate ad una mera difesa dei loro livelli salariali. Circostanza ovviamente comprensibile, ma che deve necessariamente contaminarsi con le esigenze (non meno importanti) di tutti coloro che operai non sono, e che affogano nelle sabbie mobili di una precarietà che a queste latitudini si mostra, se possibile, ancor più drammatica che altrove.
In questi termini di riarticolazione delle pulsioni corporative presenti nel corpo operaio, è necessario rilanciare collettivamente un’azione politica coraggiosa e possente, riproducendo il format dello scorso luglio (operai, precari e studenti capaci di delineare un percorso di presa di parola comune nella contestazione al comizio delle rappresentazioni sindacali), per compiere allo stesso tempo un deciso salto in avanti. Il nemico in quell’occasione fu facilmente individuabile, e fu agevole coalizzare gli umori operai contro i sindacati, esplicitamente allineati con le esigenze della dirigenza Ilva.
In questa fase bisogna però cercare di guardare decisamente oltre le irreversibili difficoltà del mondo sindacale, ben testimoniate dalle incredibili (ed infami) dichiarazioni del segretario provinciale della Fiom di Taranto Donato Stefanelli che, in pieno del caos, sentiva il bisogno di dichiarare in un’intervista, in riferimento agli operai che chiedevano spiegazioni al Adolfo Buffo (direttore dello stabilimento Ilva) che fossi stato da parte dell’azienda, stamattina (martedì, ndr), li avrei denunciati, proprio mentre nuove misure repressive colpivano – ancora una volta – gli attivisti No Tav. Per giunta lo stesso segretario Fiom si lamentava del fatto che gli operai si sono portati appresso decine di persone che non c’entravano niente con l’Ilva, in aggiunta alle solite accuse deliranti e classiste nei confronti di schegge impazzite di questa città, (…) qualche ragazzo dei centri sociali, (…) ultras e poi tanto sottoproletariato tarantino.
La tempesta a mani nude. Movimenti scomposti di un mondo in corso di dissoluzione. Per non rischiare di rimanere invischiati all’opposizione, di non riuscire a pronunciare nient’altro che un (sacrosanto ma insufficiente) non ci rappresenta nessuno e di farsi travolgere dal crollo, occorre collettivamente abbandonare un certo atteggiamento rancoroso ed antimoderno, liberandosi dalla biunivoca (ancorché conflittuale) relazione col mondo sindacale, e provare a tracciare un percorso complessivo alla ricerca delle possibili tracce di alternativa che pure si aprono davanti. Dobbiamo renderci conto che è decisamente impossibile che dopo il crollo delle forme politiche della rappresentanza (anche sindacale) un mondo nuovo, più bello e solidale, si autodetermini da solo, in assenza di un’azione politica ampia, profonda e radicale, che sappia delineare percorsi collettivi sul terreno dell’alternativa.
Proprio in questi termini va agito collettivamente quel que se vayan todos! diffuso che riecheggia ampiamente nel ventre del 99% ionico. Urlo liberatorio, necessario ma non sufficiente: può prefigurare l’istituzione di forme di vita diverse e più gratificanti rispetto alla miseria dell’esistente, ma anche favorire il trionfo di nuove forme di dominio e barbarie, se il 99% di Taranto non riuscirà a compiere passi in avanti più convinti sul piano di un complessivo rifiuto del profitto dei pochi – in qualsiasi forma si materializzi – ai danni di tutti gli altri.
Nella giornata di mercoledì una tremenda tempesta ha colpito, devastandolo, proprio lo stabilimento siderurgico, quasi che fosse l’ennesima punizione per la città dannata che non ha saputo proiettarsi al di fuori del novecento.
Come può nascere un mondo di relazioni umane ed economiche virtuose oltre queste macerie (fisiche ed emotive) proprio mentre si prefigura un ennesimo, drammatico salto nel buio? Difficile delinearlo astrattamente, in maniera programmatica e definitiva: occorre più che altro praticarlo quotidianamente nelle dinamiche di movimento. Abbiamo tutti insieme imparato, però, quali percorsi possano prefigurare alterità rispetto al disastro dell’esistente.
Occorre in questi termini provare a raccontarsi con più passione ed intensità le mille affinità che oggettivamente esistono tra le diverse categorie di sfruttati, e riconoscersi – operai precari disoccupati studenti – come compagni di un possibile viaggio collettivo, difficile ed entusiasmante, sotto il segno dell’autonomia dei desideri, cogliendo il tema del reddito come un’opportunità per discutere delle nostre vite, del nostro rapporto con la città, con il nostro tempo e con la leggerezza dell’essere altro rispetto al perenne dominio delle passioni tristi.
È necessario collettivamente produrre una tempesta perfetta, politica, di ampia portata, autonoma, libera e orgogliosamente ribelle, che metta in discussione le miserie dell’esistente – travolgendole – tutta contro il profitto del 1% e per i desideri di una moltitudine nella quale i corpi, nell’incontro, divengano reciprocamente altro.
Non è più tempo di indugiare, non ce lo possiamo permettere: è tempo di fare l’amore come la vespa e l’orchidea.
* Attivista di Occupy ArcheoTower