Tra Mirafiori e Bangalore: l’inchiesta politica nei call center calabresi
di CARLO CUCCOMARINO e FRANCESCO MARIA PEZZULLI
In Calabria ci sono oltre 10.000 addetti al call center, più della metà sono dipendenti, spesso part time al 50%, con un contratto di 20 ore settimanali, inquadrati al secondo o terzo livello del CCNL Telecomunicazioni. Il salario è di circa 650 euro. I collaboratori a progetto censiti sono invece quasi 3.000 e guadagnano mediamente, tranne rare eccezioni, intorno ai 400 euro. Il numero degli occupati non è “certo”, ma indicativo, perché il settore ha un alto tasso di tourn over, dovuto soprattutto al sorgere e morire, in breve lasso di tempo, di piccole e medie imprese (ne sono cessate più di venti, dai 30 ai 100 operatori, negli ultimi tre anni), che vivono con saltuarie commesse di sub appalto, acquisite dopo una gara al massimo ribasso.
Il Corriere della Sera, per la penna di Federico Fubini, ha definito Catanzaro “la periferia di Bangalore” per l’alta concentrazione di operatori di call center presenti. A conferma dell’usura di certe categorie possiamo, di converso, affermare che Catanzaro è il centro, o meglio è il cuore, del settore calabrese dei call center. E’ centro rispetto a Cosenza Valley (cosi definita dal management dei call center), dove si de localizza in ragione della presenza di forza lavoro immateriale a prezzi convenienti. Ed è centro anche rispetto a Tirana e Bucarest dove sono presenti più filiali di call center catanzaresi, attratti dal costo del lavoro immateriale ancora più basso della vicina Cosenza. Il cuore catanzarese è composto da 2-3 imprese (su 9 nel capoluogo) che occupano oltre 5 mila addetti (di cui oltre 1.500 in sedi cosentine). Si tratta di società per azioni facenti capo a boss politico imprenditoriali del territorio: Abramo (Customer Care s.p.a.), sindaco di catanzarese di destra, che occupa quasi 3 mila operatori subordinati sindacalizzati con un accordo di stabilizzazione; Infocontat s.p.a., con sede legale a Roma e 12 sedi operative in altrettanti paesi calabresi, con un buon portafoglio clienti (Poste, Telecom, Wind, RCS, Mediolanum, eccetera) e mille operatori a Catanzaro (+ 620 a Cosenza). La Telecontact, del gruppo Telecom, che conta 600 operatori dipendenti ma svolge un ruolo strategico in termini di acquisizione di commesse da case madri esterne e poi lavorate o date in sub appalto. La diretta concorrente di questi gruppi, la Phonemedia, è fallita di recente dopo aver ricevuto circa 10 milioni di euro di finanziamenti pubblici, lasciando in Cassa integrazione oltre 2 mila operatori, alcuni dei quali ancora oggi non hanno ricevuto alcuna indennità.
Cosenza, dal canto suo, ha il numero assoluto di imprese più alto. Ma è anche il capoluogo che negli ultimi anni ne ha visto morire di più. Quelle cosentine sono imprese precarie dei servizi immateriali, che forniscono i grandi gruppi nazionali ai quali sono indissolubilmente legate in termini di commesse, senza però nessun vincolo di rapporto. Come accennavamo Cosenza Valley è il contesto regionale dove lo sfruttamento intensivo degli operatori frutta maggiori profitti, in quanto il lavoro immateriale costa meno e le implicazioni giuridiche del rapporto con gli operatori sono quasi inesistenti. Non è un caso che la multinazionale Almaviva, sbarcata a Cosenza con il “salvataggio” (acquisto) della milanese Call&Call, chiede la Cassa Integrazione di 632 dipendenti nella sede di Roma e allo stesso tempo prevede un piano di 250 assunzioni nella sede cosentina. Su 2800 collaboratori a progetto presenti nella regione, quasi 2000 lavorano a Cosenza. Reggio Calabria è invece un caso a se e pare avere pochi legami con le altre province: sono presenti oltre mille operatori, meno della metà collaboratori a progetto; 3 imprese di medie dimensioni (200 – 250 operatori) e 8 piccole imprese (30 – 100 operatori). Le prime hanno sede legale fuori dalla regione, a Milano soprattutto. Si tratta della System House, cresciuta nell’ambito del BIC Calabria; della Call&Call, già proprietaria di una sede nel Cosentino (oggi Almaviva), che occupa a Locri oltre 260 dipendenti; della Giary group, che ha mandato 58 persone in Cassa Integrazione, per le quali, garantisce il sindacato, è previsto a breve il rientro. Ed a definire il quadro c’è la ESG, società romana controllata da Antonio Persici e dalla moglie Mariarosa Rossi (nominata onorevole da Silvio Berlusconi e sua segretaria personale), che dal 2007 al 2010 ha ricevuto dal Comune di Reggio Calabria quasi 5 milioni di euro per il servizio “chiamareggio”, prima gestito da due società partecipate dal comune.
Il lavoro immateriale
Il Corriere della Calabria, settimanale regionale, in uno dei suoi reportage ha battezzato i call center come “la mirafiori calabrese”. Seppur usuale, la definizione calza meglio di quella di Fubini, dal momento che lo sfruttamento degli operatori avviene in buona parte in termini tradizionali. Nuovi soggetti al lavoro e vecchie forme di sfruttamento, cosi potremmo sintetizzare i rapporti interni di un call center, dove gli operatori sono imbrigliati (loggati) in una rete informatica, comandati attraverso procedure simili a quelle della fabbrica taylorista e sfruttati sulla base del tempo come misura del valore lavoro. La differenza sostanziale con la Mirafiori di un tempo è che i call center non producono oggetti materiali, ma vendono servizi ed assistenza, attività per le quali servono abilità non materiali, qualità che sono acquisite attraverso le esperienze di vita e socializzazione, non sul posto di lavoro. Si tratta di capacità linguistiche, comunicative e relazionali che rappresentano a tutti gli effetti “l’insieme delle facoltà umane” e che, in quanto tali, sono inseparabili dal soggetto che le detiene. Sono qualità legate alla riflessività dei soggetti che tendono a generare nuove conoscenze nell’ambito delle prestazioni lavorative. Nonostante i tentativi aziendali di irregimentare le condotte degli operatori in schemi predefiniti di gestione delle telefonate (script sui comportamenti verbali e non verbali da intrattenere nelle varie fasi dell’interlocuzione) quello dell’operatore di call center è un lavoro non standardizzabile, perché attiene alla biologia del soggetto, ai suoi sentimenti ed alla capacità di razionalizzazione, alla versatilità ed alla reattività che è in grado di esprimere, ai saperi che riesce a funzionalizzare e comunicare, eccetera. In una parola: è un lavoro bioeconomico, che per essere produttivo deve essere in grado di sviluppare reti di relazioni: empatiche, con i clienti; cooperative, con gli altri operatori.
Lo sfruttamento nei call center
Lo sfruttamento nei call center è emblematico del capitalismo cognitivo, dove la separazione del lavoratore dal mezzo di lavoro non può verificarsi in nessun modo e la prestazione lavorativa, di fatto, è quasi completamente interiorizzata. A tal proposito sono quanto mai chiare le parole di Massimo, operatore incontrato lo scorso anno durante l’occupazione di uno stabilimento nel rendese: «la capacità produttiva di ogni singolo operatore di call center consiste in una serie di caratteristiche intrinseche provenienti comunque dalla propria forma mentis culturale, dal grado di istruzione e dalla capacità di saper ascoltare e saper cogliere nelle parole dell’interlocutore il momento opportuno per proporre la vendita del prodotto che si vuole piazzare». L’organizzazione del lavoro di un call center, praticamente, è la risposta al fatto che al management è impossibile intervenire direttamente sul principale mezzo di produzione. Per far fronte ad un simile vincolo, che si presenta come insopportabile, vengono definite le linee di comando a monte del processo lavorativo, tramite sistemi informatici che permettono la gestione del contatto con il cliente ed il controllo continuo dell’attività autonoma degli operatori. Tale controllo si esplica attraverso una serie di tecniche di sorveglianza, finalizzate a valutare complessivamente le performance dell’operatore, a valle del processo, sia in termini di produttività registrata che di adeguamento al sistema organizzativo. Ciò comporta che gli operatori, di frequente, sottostanno all’intensificazione delle esigenze produttive tramite forme di autocontrollo (o auto repressione) che, per una sorta di perversa imitazione, diventano le forme comportamentali dominanti all’interno degli stabilimenti. Tali forme sono funzionali al tipo di organizzazione del lavoro vigente nei call center, che spinge al massimo la cooperazione e la comunicazione che le tecnologie digitali (ossia i software ai quali sono loggati gli operatori) richiedono. Anche qui una differenza rispetto alla passata stagione industriale, nel senso che nei call center non siamo in presenza della classica cooperazione di fabbrica (generalmente, due persone vicine che svolgono operazioni disgiunte per uno scopo comune) quanto piuttosto siamo in presenza di un insieme di comportamenti multilaterali degli operatori, tecnico scientifici e intellettuali, che garantiscono l’intero processo produttivo. Parliamo di una cooperazione insita negli operatori, nelle attività che svolgono e negli strumenti informatici che utilizzano. Un sindacalista che ha partecipato ai primi incontri d’inchiesta, atterrito dai comportamenti antisindacali degli operatori, racconta che «è come se non avessero il minimo interesse circa la loro condizione, come se non si percepissero come lavoratori, delle volte quando parliamo è come se si vergognassero del lavoro che svolgono ed immaginano sempre che sia momentaneo che a breve riusciranno a cambiare, il problema è che molti lo ritengono un lavoro senza dignità e non fanno nulla per far si che diventi dignitoso». Il tono cambia, e diventa sbalordito, in linea con quanto ci è stato raccontato da molti operatori durante gli incontri, quando si discute delle capacità messe in campo durante le loro operazioni quotidiane: «non capisco proprio come riescano a fare, per me che appena riesco ad usare questo computer. Sono in grado di lavorare e interagire con 5 o 6 programmi aperti, contemporaneamente di rispondere ad una chiamata dietro un’altra ed anche, magari aiutare il vicino di postazione che ha qualche problema. Si trasformano, riescono ad essere risolutivi, c’è da rimanere sbalorditi a vederli operare con cosi tanta maestria».
Il tempo è denaro
Il tempo è tutto nel call center. È l’ossessione degli operatori, ai quali la giornata lavorativa viene cronometrata in secondi. Il tempo di una conversazione che si prolunga oltre la media, una pausa che sfora i limiti stabiliti, la chiacchiera con il collega vicino o qualsiasi altra infrazione che allunga il distacco dal videoterminale è immediatamente sanzionata dal team leader, che si aggira come un segugio tra le postazioni, caricatura tragicomica del vecchio cronometrista. Anche quest’analogia con la “mirafiori” sembra dunque appropriata, ma solo in parte lo è, perché il “tempo di lavoro” è una dimensione vissuta in modo differente dagli operai della vecchia fabbrica taylorista rispetto agli operatori di call center: per i primi, è il tempo della necessità, dopo il quale ci saranno all’incirca due terzi della giornata nei quali sarà possibile dormire e fare altro; per i secondi, di converso, il tempo di lavoro, della necessità, sembra debordare incredibilmente venendo ad occupare anche quelle parti della giornata che si ritenevano libere e che invece è «come se fossimo con quelle maledette cuffie addosso». Succede cosi a Paolo «che agli amici o ai familiari che mi telefonavano rispondevo con lo script iniziale». Oppure a Lina «che a casa sentivo squillare sempre il telefono, andavo a rispondere e non c’era nessuno». Oppure a Roberto ed Alessandro che quando non facevano contratti «il tutto si ripercuoteva nella giornata, stavamo nervosi anche fuori dal lavoro». E cosi via per moltissime altre esperienze, che testimoniano che le barriere tra il tempo di vita e tempo di lavoro si sono definitivamente disciolte, che qualsiasi cosa avvenga in una delle due sfere si trova immediatamente ad influenzare pesantemente anche l’altra.
Lo sfruttamento del lavoro cognitivo
Nella mirafiori calabrese il valore capitalistico è generato dalle capacità linguistico relazionali e dai saperi tecnici degli operatori. Queste, che sono qualità singolari e comuni, non sono in alcun modo riconosciute dai capitalisti dei call center e dai loro responsabili aziendali, nonostante siano le qualità che gli permettono di generare lauti profitti e mandare avanti l’intera baracca. Come raccontava un supervisor, citando un consueto ritornello: «noi siamo in grado di vendere anche il ghiaccio agli esquimesi. I nostri operatori e le nostre operatrici sono bravissimi in questo, riescono a vendere di tutto, la loro attività è fondamentale nel call center, se non riuscissimo a mantenere queste performance dovremmo probabilmente dire addio a tutte commesse». Le qualità di cui abbiamo discusso non sono riconosciute, nei magri compensi degli operatori, ma come appena riportato sono perfettamente note a chi è delegato al loro sfruttamento, senza il quale andrebbe per aria l’intero settore.
Nei call center lo sfruttamento del lavoro cognitivo degli operatori avviene come espropriazione delle loro qualità sociali. La rigida organizzazione del lavoro nei quali sono inseriti (della quale probabilmente daremo conto in un successivo intervento) è funzionale ad una loro individualizzazione e precarizzazione; allo stesso tempo riesce a valorizzare capitalisticamente anche i loro sorrisi.
* Pubblicato su “il manifesto”, 13 dicembre 2012.