Triplo zero o zero work?
di GIANNI GIOVANNELLI
Nel 2006 una cara amica di Napoli mi segnalò Gomorra dell’allora quasi ignoto Roberto Saviano; ed io (che andavo meditando sull’economia criminale) lo presi in mano con animo ben disposto. Ma stavo quasi per archiviare il volume alla prima pagina quando l’occhio cadde su una citazione (a dire il vero banale) d’esordio; leggere il nome di Macchiavelli con la storpiatura di due c mi pareva troppo. Lo strafalcione mi risulta comunque sopravvissuto per una ventina di ristampe.
Superata (non senza qualche disagio) l’irritazione iniziale mi sono reso conto, rapidamente, che il ragazzo aveva indubbio talento, una capacità naturale di cogliere fotogrammi di realtà in una forma accessibile e comprensibile. Era il resoconto del disagio di una generazione intera, impotente di fronte alla prepotenza che si alleava agli avvoltoi della globalizzazione e del saccheggio; potevamo leggere lo sgretolarsi di un vecchio mondo locale e popolare, l’esproprio del futuro e del comune, l’aumento geometrico della precarietà e della depressione. La consapevolezza pareva essere assunta come unica ragione di speranza. Come era prevedibile il successo (a maggior ragione dopo il film) ha determinato un fenomeno di costume, con la consueta coda di detrattori, sostenitori, imitatori, utilizzatori diretti e indiretti. Intanto, far il 2006 e il 2013, è proseguito l’ingresso negli appalti della struttura criminale complessiva, il rastrellamento delle proprietà immobiliari e dei terreni, il rapporto fra capitalismo cognitivo e finanziarizzazione del ciclo di accumulazione della ricchezza. Sono sorte negli ultimi anni interessanti realtà locali in cui lo stato è andato assumendo la forma istituzionale di controllo militare del territorio a mezzo di milizie esplicitamente e dichiaratamente legate all’economia criminale. Non si tratta più di zone (porzioni di territorio) in cui lo stato tradizionale ha perso la capacità di comando (come accadeva ed accade per esempio nella vasta regione della Guajira), ma di repubbliche indipendenti (come ad esempio la Transnistria, con circa 600.000 abitanti, una propria moneta, una importante fabbrica di munizioni, 8.000 soldati, elicotteri, aerei, veicoli corazzati, e un Presidente, Yevgeny Shevchuk). La stabilità politica dei singoli stati criminali (in aumento nel corso degli ultimi anni) è sorprendente; sono processi costituenti che dovrebbero farci meditare.
Torniamo al nostro Zero Zero Zero. Curioso come un gatto sono andato a ritirare la mia copia il giorno dell’uscita. Come mi era accaduto per la prima opera la pagina delle dediche mi ha immediatamente provocato una certa irritazione. Dopo l’occhietto si legge: questo libro lo dedico a tutti i carabinieri della mia scorta. Per giunta, in chiusura, a pagina 441, Saviano ringrazia l’Arma dei Carabinieri, la Polizia (sic!), la Guardia di Finanza, i ROS, i Gico, lo Sco. E ancora, a pagina 442, i vertici dell’Arma dei Carabinieri, il comandante generale Gallitelli, il capo della Polizia di Stato Antonio Manganelli e il comandante generale Capolupo della Guardia di Finanza (giuro che si chiama proprio Capolupo, non è un mio scherzo). Quanto ai maestri ispiratori l’autore si sente in dovere di chiarire: ringrazio in particolare il generale dei Carabinieri Gaetano Maruccia, il comandante dei Ros Mario Parente, il generale della GdF Giuseppe Bottillo che hanno seguito la crescita di questo libro.
In questa compagnia sorprende l’inserimento di Gomma (sia pure limitatamente ai consigli digitali) e dei ragazzi di Occupy Wall Street (ci si permetta di dubitare che il tarantino Leonardo Gallitelli tenga in simpatia i manifestanti americani di Piazza Zuccotti; e viceversa).
Avevo digerito a malincuore la doppia C del Macchiavelli in Gomorra; la seconda prova è stata assai più dura, ma l’ho superata, leggendo tutto, fino alla chiusura, che lascia di stucco. Il mondo è una pasta che lievita. Ma chi diavolo avrà mai suggerito a questo giovane scrittore (che, ripeto, ha talento, eccome) una stupidaggine di questo genere? Ho archiviato i carabinieri, la pasta che lievita, le piccole ingenuità stilistiche che di quando in quando fanno capolino. Come antidoto (o cura omeopatica) vorrei suggerire al Saviano una dose potente di Francesco Mastriani, suo celebre concittadino, che tanto successo ebbe nel XIX secolo, pescando nella cronaca e portando la tragica miseria del quotidiano alla ribalta letteraria (un romanzo per tutti: Il mio cadavere, Tipografia dell’omnibus, 1852).
Centocinquantamila copie in meno di due settimane costituiscono un evento straordinario per un libro corposo e impegnativo di oltre 400 pagine, in cui si affronta il tema del successo e del denaro guardati attraverso la lente del crimine e della cocaina. Evidentemente deve essersi creato un rapporto misterioso fra scrittore e lettore, rapporto che certo non trova spiegazione nelle citazioni letterarie (spesso mal riuscite, Conrad e Melville non sono nelle corde di Saviano) e neppure nell’elenco meticoloso (troppo meticoloso) delle operazioni di polizia o nelle compiaciute descrizioni della crudeltà umana.
Per comprendere questo legame misterioso ho cancellato l’irritazione connessa alle dediche e il fastidio per le cadute di stile, cercando il buono, o, se vogliamo, il bello dell’opera. Stava, come nel primo romanzo, nella descrizione dei personaggi, dei protagonisti del male. Gente che nasce povera, che viene dal nulla, che cerca nel potere e nel denaro la via del proprio riscatto dalla miseria e dal destino. Senza morale alcuna, una sorta di nuovo esistenzialismo negativo. Tradiscono, reagiscono, si vendicano, puniscono, regnano, dominano, si espandono. A ben vedere la cocaina è solo un mezzo (uno dei possibili mezzi, non l’unico) anche se Saviano, nella foga creativa finisce con il trasformarlo nel fine, perdendo il contatto con il reale (per me la parola narcocapitalismo è diventata un bolo che non fa che gonfiarsi, pagina 439).
I paria del ventunesimo secolo si riconoscono nell’ascesa sociale dei singoli trafficanti, che fanno carriera in spregio alle regole della società in cui vivono; sognano di poter accedere alla ricchezza violando la legge oppure si tranquillizzano nel vederli finir male e giustificano così il loro presente oppressivo. Si ritrovano nelle storie di narcotrafficanti sia gli avventurieri che i rassegnati, per ragioni diverse; e qui sta il segreto del legame, del numero incredibile di copie. Non è un fatto meramente meccanico. É una sorta di simpatia, quasi una legge di sinergia che lega i fenomeni fra loro; la forma della scrittura e la convinzione (condita dell’inevitabile egocentrismo) dell’autore raggiungono i soggetti nelle loro comunità, e tutto interagisce provocando la comunicazione di massa.
Ecco il punto. Ragiona come un imprenditore proiettato su uno scenario internazionale. Gli affari illegali sono affari come altri, contano affidabilità e preveggenza…..viaggia, crea contatti, incontra clienti. Ovunque. Cerca finanziatori, capitali: poi ci penserà lui a decidere dove e come comprare di volta in volta. Cerca bravi trasportatori, coste sicure, città deposito….prima era la coca che ruotava intorno al denaro. Ora è il denaro che è entrato nell’orbita della coca, risucchiato dal campo gravitazionale. Il punto è che anche l’economia criminale va assumendo le medesime caratteristiche di ogni altro segmento, si è finanziarizzata, aggredisce il comune per estrarre profitto, si avvale del mercato globale e della comunicazione, si caratterizza per il prevalere del capitalismo cognitivo. E proprio per questo non è separabile dal meccanismo capitalistico nel suo complesso; viene meno il conflitto fra struttura criminale e stato perché l’organizzazione dell’economia criminale è parte dello stato. Ovvio che si tratta di un processo in corso, con mille contraddizioni. Ma è un processo avviato, senza ritorno.
Prendiamo le lotte nel settore della logistica e consideriamo le forze in campo, i soggetti, i protagonisti. A Milano un giovane attivista sindacale della Filt-Cgil, tale Antonio Paolo, cambia di campo ed inizia ad organizzare l’appalto di manodopera, con il consueto sistema delle cooperative. Il suo miglior committente è costituito dalle poste tedesche, Deutsche Post (che poi acquisisce la DHL). Da buon funzionario d’impresa nel tempo diversifica l’attività: alle braccia affianca il riciclaggio di denaro e lo smercio di droga. Ed infatti gli trovano ottanta chili di cocaina e una valigia di contanti. Ci siamo divertiti a calcolare i possibili profitti netti, separando cocaina e appalto di braccia, sulla base delle carte del processo; la vendita di lavoro comportava ricavi netti superiori alla vendita della polvere zero zero zero. I profitti del narcotraffico non possono non diventare prodotto finanziario, e nel momento in cui assumono questa veste diventano capitalismo cognitivo; il blocco improvviso dello spaccio, contemporaneamente e nel pianeta, avrebbe lo stesso effetto di una richiesta contestuale di pagamento di tutti i buoni pubblici, l’esplosione del sistema.
Questa è una contraddizione evidente del libro di Saviano, che ci descrive lo scontro fra gendarmi e trafficanti come la sostanza senza realizzare che si tratta invece dell’apparenza. Guardie e ladri sono parte, entrambi (anche se magari i singoli soggetti non se ne rendono conto), dell’istituzione, del capitalismo cognitivo, del ciclo finanziarizzato. Ed infatti le storie di guardie e ladri, nel libro, si intrecciano di continuo, contro il desiderio e la volontà dell’autore. Ma qui sta il nocciolo della vicenda, la spiegazione delle centocinquantamila copie; i soggetti della condizione precaria comprendono che governanti (guardie governative) e spacciatori sono intercambiabili, sono gli antagonisti, sono coloro che impongono il loro dominio, che espropriano il comune, esercitano il controllo, rubano la vita trasformandola in lavoro. La vera cocaina non è la polvere zero zero zero; è il danaro, o, meglio, non è neppure il danaro, ma è il lavoro precario salariato. Ma dallo spaccio di lavoro precario salariato non attendiamoci l’arrivo dei carabinieri a liberarci.