Mali: una sfida di civiltà da rifiutare
di TONI NEGRI
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L’intervento francese nel Mali è rilevatore di una crisi politica che si avvia alla generalizzazione nell’Africa sahariana e subsahariana, dopo le “primavere arabe” del Maghreb. “Si è mostrato il lato pericoloso dell’Arab Spring”, titola il New York Times – ed aggiunge: aveva ragione il colonello Gheddafi quando prevedeva che, caduto lui, la gente di Bin Laden sarebbe arrivata per terra e per mare, per occupare le sponde del Mediterraneo.
Ma è davvero questo che spinge i nuovi guerriglieri alla rivolta nei deserti del Nord Africa, o non sono piuttosto una povertà sempre più feroce e la logica sempre più distruttiva dei governi della ex-Françafrique? Le zone rurali dei paesi del Sahel sono restate, malgrado gli ultimi anni, in una situazione di miseria profonda – essa nutre l’esodo delle popolazioni e la destabilizzazione delle grandi città. A fronte di questo c’è un “falso” sviluppo mostrato dalle statistiche macroeconomiche, legato all’attuale corsa dell’estrattivismo minerario verso i territori ricchi di quelle risorse: il Mali, ad esempio, è il terzo produttore mondiale d’oro, è ricco di uranio, e si prevede ricchissimo di idrocarburi. Il jihadismo entra in quei territori non per merito del suo “fanatismo” e non li domina in nome di “barbarie terrorista” (come si racconta all’opinione pubblica occidentale) ma perché segue il dissolversi delle istituzioni di quei paesi, inserendosi nella loro fragilità economica e civile. Per questo il successo degli “invasori” (che tali non sono) è pressoché assicurato.
Il Mali non è che uno dei paesi del Sahel – anche gli altri sono parimenti in crisi – il dubbio circa l’approfondimento della crisi in ciascuno di loro dipende solo dai residui elementi di casualità che il “domino” cominciato ancora contiene. Nel Mali, un tempo “vetrina della democrazia” nella zona, il governo era in crisi da tempo, sopraffatto dalla corruzione, da colpi di Stato a ripetizione e dalla rivolta delle popolazioni Tuareg nel nord. Esse richiedono l’indipendenza dell’Azawad (vasta regione desertica nel nord del Mali). Questa rivolta ha trovato occasione di divenire vincente quando, con la sconfitta del regime libico del colonello Gheddafi, molti mercenari Tuareg sono rientrati nel loro paese – armi (in grande quantità e le più sofisticate) e bagagli (logistiche regionali e alleanze con reparti dell’ex-esercito maliano) appresso. Si tenga presente che l’intervento francese (e della Nato) in Libia ha portato all’implosione di quel paese in una miriade di frazioni locali, ideologiche, etniche e che, nel dopo Gheddafi, non c’è alcuna autorità capace di esprimere forza legittima.
La rivolta armata Tuareg ha poi trovato un forte, forse decisivo appoggio, in gruppi salafisti e jihadisti che, al termine della guerra civile algerina, già dal 2002 avevano posto le basi di Al-Quaida nel Maghreb. Questi gruppi, da circa 10 anni, avevano (profittando dell’“industria dei sequestri” e dell’appoggio ai “trafficanti” illegali di quell’ampio territorio) costruito basi e reti di appoggio alla guerriglia. Il pericolo era noto. Da tre o quattro anni, una cooperazione bilaterale Francia-Usa era stata messa in piedi per bloccare e combattere quello che alcuni descrivevano come l’“asse Kandahar-Dakar” – recentemente il NYT ha rivelato che il dipartimento di Stato aveva investito in quell’area circa mezzo miliardo di dollari per una strategia antiterrorista. Già all’inizio del 2012, il comando americano Africom doveva tuttavia registrare che una buona parte delle truppe maliane addestrate aveva aderito alla rivoluzione nel nord del paese. Adesso abbiamo avuto l’intervento francese a seguito della domanda d’urgenza del governo di Bamako (meglio, di quel che ne resta), formalmente appoggiato da una larga coalizione di paesi africani e di governi europei. Ma la guerra francese già appare potersi espandere a macchia d’olio in un gran numero di paesi vicini. Gli eventi algerini dell’ultima settimana, dove la delicatezza degli interventi di quel governo e di quell’esercito è rivelata da centinaia di assassinî, rappresentano solo l’inizio di questo amaro sviluppo.
Per ora, si consolano la stampa e l’opinione pubblica francese, non si tratta ancora di una guerra di usura (come quelle irachene o afgane) dove i protagonisti si muovano “nel mezzo delle popolazioni” ma piuttosto di una guerra classica, pur nel deserto, di posizione e di movimento. Non ci vorrà molto perché le cose cambino. Potrà, ai francesi, e man mano alle truppe degli altri paesi africani (che resteranno sotto il comando francese finché permarrà la reticenza americana a prenderne il cambio), esser facile raggiungere la vittoria sul campo. Ma poi come governare una pace che non sarà tale, a fronte di una “guerra nomade” nel deserto che già comincia, all’isteria per l’eventualità di attacchi terroristici nella Francia continentale e soprattutto davanti alla memoria della vergogna coloniale e del dispotismo postcoloniale esercitati dalla potenza francese? Ma soprattutto, come prendere in conto – nella situazione attuale e in quella postbellica – quelli che ci permettiamo di definire gli “aspetti buoni” dell’Arab Spring, meglio, di quel “printemps africain” che sembrava cominciare ad esprimersi anche nel Sahel? Inutile dunque – e lo diciamo per la seconda volta – prendersela con l’estremismo di un islamismo radicale salafista quando si sta già soffocando l’unica vera alternativa che ad esso si può dare: la maturazione – che era già iniziata – di élite giovani, democratiche, anticapitaliste in quei territori. Bisogna attaccare le cause socioeconomiche di questa crisi.
Se si ascoltano gli esperti, questi dicono che per sviluppare un programma di ricostruzione e di sviluppo, bisognerebbe intervenire, in questi territori, sull’agricoltura, il rimboscamento, l’allevamento del bestiame, il miglioramento delle piste e dei trasporti, l’accesso all’acqua, la promozione della produzione energetica solare ed eolica, ecc., ecc.. E poi si tratterebbe di rilanciare i programmi cotonieri e cerealicoli in queste zone… Insomma, davvero tutto. Infine, soprattutto, “le popolazioni dovranno beneficiare della ricaduta dei redditi minerari, in particolare dell’oro, primo prodotto di esportazione”.
Non vi sembra comica questa conclusione? Nel riderne non è certo il cinismo che ci spira – ci sembra piuttosto che porre la medesima aurifames che conduce i nostri governi liberali a combattere i terroristi nelle spietate lande desertiche del Sahara e del Sahel come bene da redistribuire ai nemici (perché è ben difficile distinguerli dai poveri contadini o proletari metropolitani ora in rivolta) sia come minimo ipocrita. E ancor più: non vi sembra che siano lacrime di coccodrillo quelle che i nostri democratici – ed in Italia tutti si confondono in questa pappa – piangono? È il pesante fardello della nostra civiltà che ci spinge a questo intervento! È obbligo sacro della sovranità – ormai esercitata nel nome dell’Europa! Stateci attenti a queste stupidaggini, gli stessi Usa non li ripetono più dopo le terribili sconfitte mediorientali! Riconosciamo piuttosto che solo modificando radicalmente la nostra coscienza politica, operando una rottura radicale con i modi di governo che sono funzionali al capitale, potremo di nuovo orientarci correttamente. Nella globalizzazione non si può più ragionare alla stessa maniera di Parlamenti europei e di quello Europeo, votando uomini e mezzi a favore dell’intervento francese (e particolarmente odioso è stato a Strasburgo l’atteggiamento bellicoso dei Verdi europei).
Gilles Kepel – forse il miglior esperto di cose arabe che in Occidente si conosca – nota che “quello che si gioca in Mali è una sfida di civiltà nell’epoca della mondializzazione. Il Sahel è ad un tempo la vittima per eccellenza e il luogo di incandescenza”. Aggiungiamo: anche la resistenza e la guerriglia anti-imperialista in quel disperato luogo di depossessione e di devastazione sono lotta anticapitalista e non vorremmo esser costretti a riconoscere che gli islamisti hanno ragione.