“Un paradiso abitato da diavoli” … o da porci. Appunti su razzializzazione e lotte nel Mezzogiorno d’Italia
di ANNA CURCIO
“L’Italia è un paese ricco di contraddizioni, che ha il sole per 9 mesi l’anno e con un reddito di base la gente si adagerebbe, si siederebbe e mangerebbe pasta al pomodoro”.
Così la scorsa primavera, la ministra Elsa Fornero rispondeva alle precarie che avevano occupato il suo ministero chiedendo reddito.
“Il Sud deve cambiare mentalità”. Esordiva all’inizio di settembre il premier Mario Monti in visita a Napoli[1].
“Lavoro per i tuoi amici, contratti per i parenti, sussidi per tutti: così funziona la politica in Sicilia”. È l’incipit di un articolo pubblicato alla fine di luglio dal quotidiano tedesco “De Spiegel International”.
1. Un paradiso abitato da diavoli … o da porci
L’idea di un Sud Italia indolente e fannullone, baciato dal sole tanto quanto dalla pigrizia e incline al familismo, al clientelismo e alla lamentela finalizzata all’assistenza trova, dentro la crisi, più estesi e rinnovati riscontri. Non che questa rappresentazione sia mai stata abbandonata. È almeno dai resoconti dei viaggiatori stranieri nella seconda metà del XVIII secolo che si è imposta l’idea di un Sud Italia pittoresco e arretrato, dotato di scarso senso morale e consacrato all’inerzia civile; il Mezzogiorno in bilico tra l’Europa delle virtù civiche e l’Africa “barbara” da colonizzare che doveva confermare la superiorità di un Nord economicamente dinamico e tecnologicamente avanzato guidato dalla Gran Bretagna della prima rivoluzione industriale e dello sviluppo del capitalismo.
Oggi, nel punto forse più critico del capitalismo, una retorica per tanti versi analoga tende ancora a marcare la superiorità del Nord rispetto al Sud dell’Europa. Un Nord, oggi guidato dalla Germania della Bundesbank che tutto sommato tiene testa alla crisi, e i paesi dell’Europa mediterranea che questa crisi non la stanno solo subendo – per altro dentro un meccanismo perverso che vede la speculazione finanziaria abbattersi sui paesi in difficoltà – ne sono considerati responsabili o corresponsabili. Sono i PI(I)GS[2]: Portogallo, Italia, Irlanda, Spagna e Grecia, con quell’assonanza esplicita, più che casuale, con il termine inglese porci: sono i maiali d’Europa e dunque sporchi, ripugnanti, oziosi. Debito pubblico alle stelle, mancato rispetto dei parametri fiscali e monetari, scarsa produttività e blocco della crescita, tutto all’insegna dello sperpero e della cattiva gestione politico-finanziaria, questa la sporcizia che si annida in Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia e Spagna. La causa, lo ricordano tra altre le citazioni in apertura, è da ricondurre all’indolenza mediterranea, al vivere al di sopra delle proprie possibilità, alla corruzione, alla mancanza di regole, all’assenza – si potrebbe dire – di quell’etica del rigore e degli affari, della morigeratezza e del lavoro che già Max Weber poneva come condizione sine qua non del capitalismo.
Eppure le coste mediterranee di Spagna, Grecia e Italia e più a sud verso il Maghreb, dove la bella stagione si protrae a lungo, sono mete privilegiate del turismo estivo. Bel mare, buon cibo e vita “slow”: un vero paradiso per le elite capitalistiche di tutta Europa, tanto più se a buon mercato dentro la crisi. Un paesaggio dunque suggestivo e seducente in cui si annidano maiali, ingordi e oziosi, l’altro per eccellenza dell’etica capitalista. È questa la rappresentazione ancora dominate del Mezzogiorno: “un paradiso [ma] abitato da diavoli” – per riprendere un’immagine, particolarmente efficace, di Napoli e dei napoletani nel XIX secolo[3] – che ci rimanda all’altro per definizione nella narrazione dell’Europa moderna. I diavoli (come le streghe), infatti, nella narrazione della modernità capitalista, hanno sempre raffigurato i ribelli, le soggettività indisciplinate e indocili, irriducibili all’organizzazione capitalista della società e del lavoro. Ad esempio, quando agli esordi della modernità si intensificarono le rotte commerciali tra il vecchio e il nuovo mondo, si narrava di orde di diavoli che attraversavano vorticosamente l’oceano Atlantico facendo man bassa delle navi mercantili. Si trattava più realisticamente delle navi pirata che arruolavano rinnegati, maroons e tutte quelle donne e uomini che alla schiavitù del lavoro salariato avevano scelto l’ambigua libertà del mare[4]. Nel XIX secolo i diavoli del Mezzogiorno d’Italia erano i mezzadri e i braccianti che resistevano alle regole del latifondo, gli operai protoindustriali in lotta per i propri diritti (come nelle ferriere di Mongiana in Calabria nel 1863) e i briganti fatti emblema di un Mezzogiorno sanguinario.
Nelle retoriche delle elite neoliberiste, in quello stesso paradiso mediterraneo, sguazzano oggi sozzi porci, pigri e oziosi, incivili e corrotti che, come i diavoli di ieri, costituiscono un punto di blocco al funzionamento del capitalismo dentro la crisi. Sono greci, spagnoli, più di recente anche portoghesi e, in una dinamica maggiormente frammentata italiani, che rifiutano i diktat della finanza, il rigore e l’austerità. Ma anche tunisini ed egiziani che nella crisi hanno visto la possibilità di un cambiamento radicale. L’immagine di “un paradiso abitato da diavoli” si presta dunque ad essere allargata a tutta l’area mediterranea dove oggi si condensano le lotte ai programmi di austerity e ai dispositivi di comando organizzati intorno al debito. La forza di questa immagine allora sta proprio nella capacità di descrivere la tensione sempre aperta tra processi di razzializzazione ed esperienze di resistenza, cogliendo le ambivalenze che si dispiegano dentro i processi di inferiorizzazione e marginalizzazione sul terreno della razza. Ed è questa la cosa che qui più ci interessa.
2. Razza e razzializzazione
Con il termine razzializzazione si fa riferimento ad un preciso dispositivo di frammentazione e gerarchizzazione della forza lavoro costruito sul terreno della razza, ovvero la costruzione di discorsi e pratiche, di processi economici e culturali di essenzializzazione e discriminazione che puntano alla subordinazione di un gruppo sociale da parte di un altro (Fanon 1964). Per leggere le specificità del Mezzogiorno e il sempre vivo razzismo antimeridionale dobbiamo allora inserire nel nostro vocabolario entrambi i termini, quello di razza e quello di razzializzazione (: il farsi verbo della razza, razzializzare).
Tuttavia, quando si parla di razzismo in Italia e in Europa (con l’unica eccezione per l’area anglosassone), il termine razza è un tabù, tanto nel dibattito scientifico quanto all’interno dei movimenti, e non è un caso. All’indomani della seconda guerra mondiale, la comunità internazionale ha avuto ragione dello scempio nazifascista concentrandosi prevalentemente sull’inesistenza della razza. Tuttavia, benchè la razza come dimensione biologica – per come era al fondo del progetto eugenetico – sia un’aberrazione da rigettare e condannare, resta indubbio che intorno al concetto di razza si sono storicamente costruite forme di differenziazione e marginalizzazione sociale e del lavoro, rapporti di dominio e sfruttamento che occorre portare allo scoperto e indagare tanto per comprendere il razzismo quanto per combatterlo. È questa l’intuizione degli studi critici sulla razza (Critical Race Theory) che affondano le proprie radici nel movimento per i diritti civili americano. E, nella prospettiva di studiare il razzismo non solo per comprenderlo ma soprattutto per combatterlo, hanno messo la razza al centro della riflessione storica e politica, assumendola come categoria sociale costruita ad hoc: un dispositivo di controllo “che la società inventa, manipola o dismette all’occorrenza” (Delgado, Stefancic 1995). In questo senso, la razza, è un campo di battaglia in cui si fronteggiano processi di inferiorizzazione ed essenzializzazione rivolti al dominio e allo sfruttamento da una parte ed esperienze di lotta e resistenza dall’altra.
Nominare la razza allora non vuol dire evocare un dato di natura o una dimensione biologica ma piuttosto richiamare una realtà dispiegata all’interno di campo di forze. La razza è reale nel senso che esistono una dimensione e un peso materiali nell’esperienza dell’essere razzializzato. Infrangere il tabù della razza significa portare l’attenzione su un intero sistema di diseguaglianze storicamente costruito che pesa sulla vita dei soggetti in termini di aspettative, possibilità e forme di vita così come sulla spazio di soggettivazione resistente che su questo terreno si può costruire[5]. Nella ricca discussione nella due giorni matese, l’insistenza dei compagni sull’aggravante mafiosa – e dunque il regime carcerario del 41 bis – per ogni tipo di reato compiuto da soggetti residenti nel Sud Italia o la denuncia di un “razzismo ambientale” legato allo smaltimento illegale di rifiuti tossici, alimentato dagli interessi industriali (che in Italia vuol dire soprattutto del Nord) con la complicità delle mafie, restituisce esattamente il senso di come la razza e i processi di razzializzazione, in questo caso la razzializzazione degli abitanti del Sud Italia, abbiano un peso indiscutibile sull’intera esperienza di vita dei soggetti.
Parlare di razza, allora, vuol dire portare in primo piano la costruzione di una presunta supremazia della bianchezza che stabilisce gerarchie sociali e del lavoro e che investe anche i territori. Una costruzione sociale, dunque, che attraversa l’intera esperienza della modernità capitalista e si consolida con il colonialismo.
I conquistatori europei nel XVI secolo furono i primi a codificare le differenze fenotipiche tra colonizzatori e colonizzati conferendo una connotazione razziale a termini che fino a quel momento avevano indicato solo l’origine geografica: “spagnoli” e “portoghesi” divennero sinonimo di dominanti mentre indios, neri e meticci rimandavano ad una posizione di subordinazione dentro l’organizzazione coloniale del lavoro (Quijano 2003). Tuttavia, è nelle colonie britanniche del XVII secolo che la razza è stata inventata come supremazia della bianchezza –The Invention of the White Race (Allen 1997): un potente dispositivo di controllo sulle lotte congiunte di lavoratori bianchi e neri che stavano minando l’ordine sociale ed economico delle colonie. Nella Virginia della seconda metà del XVII secolo, per scongiurare il ripetersi di avvenimenti come la Bacon’s Rebellion (dal nome del giovane colono inglese che la capitanava) che aveva tenuto insieme piccoli coloni, servi bianchi e neri liberi nell’assedio al governo coloniale durato oltre quattro mesi, fu varato un nuovo sistema di leggi che prevedeva una serie di vincoli per i neri e privilegi per i bianchi. Si produsse così una profonda spaccature sul piano sociale che delegittimò le consuete forme di differenziazione sociale della società capitalista: essere bianco diventava un distintivo di status e un vero e proprio salario della bianchezza – The Wage of Whiteness (Roediger 1999) – prese a differenziare la posizione sociale e lavorativa di bianchi e neri. “Una sorta di salario pubblico e psicologico” – per riprendere la definizione di W. E. B. Du Bois – fatto di referenza e titoli di cortesia, di accesso ai luoghi pubblici e di eleggibilità alla proprietà con cui, anche a parità di mansione lavorativa, venivano compensati i lavoratori bianchi, mentre i neri privati di tutto questo divenivano oggetto di violenze impunite e linciaggi (Du Bois 1935).
La bianchezza, dunque, si attestò come modello per l’organizzazione sociale e del lavoro e, dentro un vero e proprio processo di race management (Roediger 2008), di gestione della forza lavoro sul terreno della razza che ha seguito le fasi della transizione capitalistica, ha preso a funzionare nella organizzazione e riorganizzazione delle gerarchie sociali e del lavoro. Ad esempio, negli Stati Uniti, le imponenti migrazioni di inizio Novecento furono gestite attraverso la razzializzazione dei lavoratori provenienti dall’Europa meridionale e orientale e dall’Asia e, all’interno di una precisa tassonomia del lavoro su base razziale, furono stabilite mansioni e costi del lavoro. Gli anglosassoni bianchi, dunque inglesi, olandesi, tedeschi furono collocati ai vertici delle gerarchie lavorative e salariali mentre nei livelli più bassi trovarono collocazione i lavoratori di origine italiana, specie se meridionali, gli slavi, gli armeni, i cinesi, ritenuti biologicamente dotati di scarsa intelligenza (Roediger 2008). Analogamente, nell’Italia post unitaria, la costruzione del primo mercato del lavoro su base nazionale avvenne all’insegna della razzializzazione del lavoro “meridionale” (Mezzadra 2008), ovvero collocando i lavoratori del Sud Italia nei gradini più bassi delle gerarchie produttive, con bassi salari e in assenza di garanzie
La razza dunque, proprio in quanto dispositivo di controllo sociale, ha solo in parte a che fare con il colore della pelle. Italiani, slavi e armeni negli Stati Uniti di inizio Novecento, così come gli abitanti dell’Italia meridionale o gli albanesi e i rumeni che nell’Italia contemporanea sono stati oggetto di profondi processi di razzializzazione e criminalizzazione, non hanno la pelle nera, ciononostante hanno vissuto e subito processi di inferiorizzazione e marginalizzazione, di subordinazione lavorativa e sfruttamento costruito proprio intorno alla costruzione sociale della razza. Se poi si guarda al modo in cui gli italiani negli Stati Uniti sono diventati “bianchi” quando i flussi migratori hanno cominciato a decrescere e la conflittualità operaia, con il New Deal, si è affievolita (Guglielmo, Salerno 2006), o a come gli albanesi in Italia, da quando hanno cominciato a trovare collocazione nel mercato del lavoro (oggi in Italia si stimano oltre ventimila imprenditori albanesi, sebbene molti continuino a occupare posizioni subordinate), abbiano ceduto l’etichetta di “criminale” ai rumeni, “nuovi arrivati”, appare chiaro come la razza sia una categoria sociale “inventata” e “dismessa” all’occorrenza per gestire la complessità sociale. Nello stesso tempo viene anche in evidenza la capacità della razza di declinarsi in forme sempre nuove al mutare della congiunture storico politiche. La razza e i processi di razzializzazione non sono dunque fissi e immutabili ed è qui che si dispiegano le ambivalenze. Ovvero, se da una parte c’è un’indubbia capacità adattiva e mimetica del razzismo che ne fa una costante della nostra storia, dall’altra parte è proprio quella stessa dimensione mutevole e cangiante che apre la possibilità di processi di resistenza e lotta alle gerarchie sociali e del lavoro costruite sul terreno della razza.
3. Il razzismo antimeridionale
Il razzismo, come messa a lavoro della razza, è una costante della storia europea e occidentale, parte integrante dell’identità degli stati nazione moderni, e costituisce una frattura storica all’interno dello spazio nazionale. Nello specifico contesto italiano, la frattura razziale segue un doppio andamento e si articola tra il razzismo coloniale, che pervade l’intera narrazione europea e occidentale e un razzismo interno: il razzismo antimeridionale che prende forma già all’indomani dell’unificazione. “Altro che Italia! Questa é Africa: I beduini a riscontro di questi caffoni, son fior di virtù civile” aveva scritto Luigi Carlo Farini a Cavour dal Molise appena unificato[6].
All’indomani dell’unificazione, una delle principali preoccupazione del paese era scrollarsi di dosso quella rappresentazione di luogo di povertà e arretratezza su cui l’Europa moderna aveva a lungo insistito. Ed è in questo contesto, cioè nel tentativo di fare dell’Italia un paese un po’ più settentrionale, che la parte meridionale venne identificata come diversa (Moe 2004). E mentre il mito romantico-risorgimentale dell’Italia unita veniva sacrificato sull’altare del riconoscimento da parte delle grandi potenze Europee, si determinò una profonda e insanabile lacerazione nella costruzione della narrazione nazionale. Più precisamente, l’interpretazione dell’inferiorità razziale, genetica e psicologica degli abitanti del Sud permise di motivare i ritardi del paese agli occhi delle potenze europee, dissimulando l’incapacità e le responsabilità della politica nazionale nella gestione del Mezzogiorno.
È in questa specifica struttura del sentire dell’Italia risorgimentale e post unitaria, che riflette il mito della supremazia della bianchezza, che va collocata la genesi della razzializzazione degli abitanti del Sud Italia[7], mentre la giustificazione “scientifica” sarà fornita dalla scuola di antropologia positivista e in particolare dalla teoria delle “due Italie” nella trilogia di Alfredo Niceforo sul Mezzogiorno[8].
Niceforo descriveva un’Italia del Nord, popolata da ariani di discendenza germanica e un’Italia del Sud, abitata da una popolazione latino-caucasica con influenza negroide. I germanici erano “civili” e capaci di autogoverno, i latini si presentavano ribelli e ingovernabili, dunque politicamente immaturi. Nello stesso tempo, l’idea della presenza di sangue “negro” tra i latini divenne la giustificazione della loro subordinazione lavorativa. Ritenuti indolenti, pigri e poco intelligenti, i lavoratori del Sud del paese furono sottoposti a dure forme di sfruttamento e discriminazioni salariali, costituendo un vasto bacino di forza lavoro a basso costo che fu messo al servizio della crescita economica del paese. Lo sviluppo del primo capitalismo italiano fu dunque la concreta traduzione nel contesto locale del moderno capitalismo razziale che si andava affermandonegli Sati Uniti ed in Australia, e che ebbe proprio nelle teorie razziste di Niceforo un importante punto di riferimento.
Il continuo accostamento tra Africa e Sud Italia accompagnerà anche la stagione delle conquiste coloniale. L’Italia l’Africa l’aveva “in casa” aveva affermato la sinistra anti-interventista che si opponeva all’impresa coloniale (Labanca 2002). E, al di là delle intenzioni contenute in quella espressione l’idea di un Africa all’interno dei confini nazionali fu almeno uno dei fattori che mosse il progetto coloniale. Era l’occasione per spezzare definitivamente la rappresentazione di arretratezza e decadenza che ancora circolava tra le potenze europee: fare dell’Africa territorio di conquista e dominazione voleva dire sancire la propria superiorità rispetto all’altro per eccellenza della narrazione Europea.
Nello stesso tempo, nei territori dell’Oltremare i contadini poveri del mezzogiorno diventavano, in quanto coloni, un po’ più bianchi di quanto non fossero in patria, godendo di privilegi altrimenti impensabili: i privilegi della bianchezza. La cosa assunse carattere esplicito soprattutto a partire dal 1937 quando nelle colonie fu avviata la segregazione. I lavoratori africani non potevano essere impiegati in mansioni pari grado o superiori ad un italiano e, sul piano delle remunerazioni, a parità di incarico, il compenso dei primi corrispondeva ad 1/5 della somma corrisposta ai secondi (Del Boca 1986). Tuttavia, all’interno dei confini nazionali, la subordinazione lavorativa e più complessivamente la razzializzazione degli abitanti del Mezzogiorno proseguì inalterata. Il progetto di bonifica dell’Agro Pontino avviò un processo di selezione di “una super-razza italiana” all’altezza delle aspirazioni imperiali del regime che diede vita ad un vero e proprio progetto di eugenetica: il “risanamento” della razza che intendeva combinare le migliori caratteristiche di ariani, liguri, latini e calabri (Snowden 2008).
Sarà però nel secondo dopoguerra che il paese farà i conti con un’altra violenta ondata di razzismo antimeridionale. Fallita la riforma agraria e liquidate nel sangue le occupazione delle terre, il governo puntò alla riduzione delle superfici coltivabili che al Sud significò la disoccupazione per gran parte della manodopera disponibile, mentre le attività industriali furono concentrate nelle regioni di Nord ovest. In una situazione di strutturale assenza di lavoro, il Mezzogiorno si trasformò in un vasto bacino di forza lavoro a buon mercato e, a partire dagli anni ’50 oltre 2 milioni di persone (il 6.8 % della popolazione) si spostarono dal Sud verso il Nord industrializzato del paese.
Facendo leva sulla retorica della Whiteness, e recuperando tutto l’apparato parascientifico dell’antropologia positivista, i lavoratori e lavoratrici “meridionali” furono spinti verso lavori dequalificati e spesso con posizioni irregolari dal punto di vista amministrativo. Nelle città del “triangolo industriale”, si respirava una profonda alterità tra Nord e Sud in ogni aspetto della vita dei nuovi arrivati: si diffusero annunci sfacciatamente discriminatori – “Si affitta, esclusi meridionali”, “Si cercano lavoratori esclusivamente piemontesi”; furono istituite “classi differenziali” per gli studenti provenienti dal Sud e anche i matrimoni con i “meridionali” furono rubricati come “unioni miste”. Nello steso tempo la legge contro l’urbanesimo varata durante il fascismo (che rimase in vigore fino al 1961 per gli interessi degli industriali), che ostacolava l’immigrazione nei centri industriali della manodopera proveniente dalle campagne e dal Sud, aprì un profondo processo di illegalizzazione del lavoro (Capussotti 2012). Solo chi riusciva a ottenere la residenza, trovò occupazioni stabili, benché spesso con mansioni usuranti: negli altiforni delle acciaierie, nei reparti verniciatura dell’industria automobilistica, nella costruzione delle gallerie per la metropolitana di Milano. Molti lavoravano a cottimo o in subappalto nell’edilizia o in una sorta di “artigianato di ritorno” all’interno dell’indotto industriale completamente privi di garanzie e tutele (Fofi 1976). Mentre in tanti, per ottenere la residenza andarono ad abitare a ridosso delle aree industriali in aree edificate abusivamente (poi condonate per rispondere alla crescente domanda di lavoro) chiamate Corea, in cui si riprodussero marginalizzazione e isolamento (Montaldi 1975).
Ma la razzializzazione e l’illegalizzazione del lavoro “meridionale” non fu solo funzionali all’abbattimento dei costi della produzione, ebbe anche il compito di gestire la ricostruzione del capitalismo italiano ed il passaggio da un’economia ancora in prevalenza agricola ad una di tipo marcatamente industriale. In particolare la Whitenss, come dispositivo di segmentazione e controllo del lavoro, fece da sponda alla meccanizzazione del sistema di fabbrica, contrapponendo agli operai non specializzati di orgine “meridionale” che meglio si adattavano alle nuove esigenze della produzione seriale, gli operai di mestiere, prevalentemente “settentrionali” divenute figure del lavoro ormai obsolete. Puntò dunque ad interrompere le forme di solidarietà tra i lavoratori nel delicato momento della transizione capitalista. E neanche le importanti lotte operaie degli anni ’60 e ’70 animate proprio dagli operai di origine “meridionale” che seppero mettere in discussione i rapporti produttivi e più complessivamente l’organizzazione della società riuscirono ad avere la meglio sul razzismo antimeridionale.
4. Emergenza, corruzione, clientela: vecchie e nuove retoriche nella razzializzazione del Mezzogiorno
Oggi, mentre il razzismo italiano colpisce con violenza crescente i migranti internazionali e nelle città compaiono quegli stessi annunci sfacciatamente discriminatori con cui negli anni ’50 il Nord industrializzato accoglieva i lavoratori e le lavoratrici provenienti dal Sud, i processi di razzializzazione del Mezzogiorno restano saldamente al lavoro. La costruzione di un’“emergenza sbarchi” a Lampedusa o la creazione di una questione rifiuti in Campania come misura dell’incapacità di governo del Mezzogiorno (Festa 2012; Gatta 2012) sono solo due esempi che restituiscono la persistenza di logiche di inferiorizzazione e marginalizzazione delle popolazioni del Sud Italia. Analogamente funzionano le proposte di gabbie salariali o la precedenza per i residenti nell’assegnazione delle cattedre scolastiche, che ciclicamente ritornano nel dibattito politico.
Tuttavia, dentro la crisi queste retoriche hanno trovato un respiro più complessivo che rimanda al piano europeo e richiama immediatamente quelle rappresentazioni che tra XVII e XVIII secolo hanno costruito la narrazione nazionale nell’Europa: la retorica di un Mediterraneo impolitico, corrotto, sprecone l’altro per definizione dell’Europa civile. “In tutti i paesi del sud Europa che stanno combattendo la crisi – scrive De Spiegel International – possono essere ritrovate le stesse pratiche. L’utilizzo di posti di lavoro pubblici come munizioni nella campagna elettorale, lucrosi contratti governativi per gli amici e sostenitori del partito e un clientelismo politico diffuso. Il vero problema del Sud non è la crisi economica e finanziaria, è la corruzione, gli sprechi e il nepotismo”. C’è in queste affermazioni di De Spiegel International, come in altre analoghe che si possono leggere sulla stampa internazionale, un esplicito sottinteso che vuole sottolineare il ruolo egemone della Germania in Europa. La crisi dei PIIGS è anche la prova della superiorità economica e politica della Germania: del rigore, della serietà e della sobrietà che stanno tanto a cuore alle elite neoliberiste in tempo di crisi.
In Italia, questa retorica del rigore e della sobrietà ritorna, ancora una volta, come misura della storica frattura interna che attraversa il paese; segno della tensione tra modernità e subalternità che informa le diverse versioni di italianità (Capussotti, Festa 2012). Oggi, le elite tecnocratiche, Monti e il suo governo in primis, devono barcamenarsi sul piano europeo, tra la subalternità di un’economia in crisi – un’economia da PI(I)GS, appunto – e l’aspirazione ad entrare nel pantheon dei potenti a Berlino e Bruxelles. È dunque la pretesa di fare dell’Italia un paese veramente europeo e prendere le distanzia dai PI(I)GS nel bacino del Mediterraneo, che alimenta la crescente insistenza sulla diversità del Sud: corrotto, familista, “mangione”. È al Sud che si annida la sporcizia delle clientele, dello sperpero, dell’indolenza e dell’imbroglio. Lo spot pubblicitario contro l’evasione fiscale, prodotto dal governo Monti, è esplicito in questo senso. La carrellata di parassiti (c’è il parassita dei ruminanti, del legno, del cane, etc.) si conclude con il parassita della società: l’evasore fiscale. L’immagine dell’evasore non è però quella del finanziere che ci saremmo aspettati ma quella di un giovane, verosimilmente un precario, bruno, tarchiato, con folte sopracciglia e basette nere: l’iconografia di un terrone. Quello stesso terrone, probabilmente, che per la ministra Fornero si adagerebbe a mangiare la pasta la pomodoro; un parassita dunque o un porco, e nel XIX secolo sarebbe stato un diavolo.
Riaffiorano dunque da un passato mai dismesso immaginari nuovi che rimandano tuttavia alla retorica e alle rappresentazioni di razzializzazione al cuore della narrazione nazionale dell’Europa.
5. Il Mezzogiorno, oltre il Mezzogiorno: lo spazio transnazionale delle lotte nelle crisi
Nella narrazione nazionale dell’Europa, i diavoli del Mezzogiorno sono stati anche il segno della mancata pacificazione del Sud dopo l’unificazione nel XIX secolo e l’espressione dell’antagonismo operaio nel Nord industrializzato del secondo dopoguerra. Anche più di recente, il Mezzogiorno è stato attraversato da importanti esperienze di lotta, ultime, in ordine cronologico, le lotte intorno all’Ilva di Taranto. Tuttavia analizzando queste ultime esperienze (senza entrare nel merito delle mobilitazione a Taranto, il che costituisce un capitolo ancora aperto) emergono una serie di debolezze e punti blocco sul quale occorre interrogarsi. C’è innanzitutto una bassissima capacità di creare sedimentazione delle lotte, ovvero di consolidare nel tempo i percorsi conflittuali (ci sono ovviamente delle eccezioni come nel caso delle lotte nell’Agro Caleno, ma si pensi per esempio alla grande mobilitazione di Scanzano Jonico nel 2003: che spazio politico ha lasciato quella lotta?), e soprattutto emerge la pressoché completa mancanza di un terreno di generalizzazione dei conflitti, ovvero di ricomposizione politica più complessiva di lotte che sono, per altro spesso numerose, partecipatissime e talvolta anche vincenti (come nel caso, ancora, di Scanzano che ha bloccato la realizzazione di un sito di stoccaggio per le scorie nucleari).
È questo il nodo politico che dobbiamo sciogliere dopo aver indagato la razzializzazione del Mezzogiorno, fin dentro le sue più recenti declinazioni, e portato in primo piano la spazio di resistenza conflittuale che si apre dentro i processi di razzializzazione. E non è il caso né di sprofondare nel vittimismo subalterno né, tanto meno, di crogiolarsi dentro una rappresentazione di insorgenza che, per quanto reale, resta assolutamente limitata e inefficace nei termini del cambiamento. Fare della lotta contro la razzializzazione del Mezzogiorno un terreno che sappia definitivamente spezzare la dicotomia Nord Sud, vuol dire allora innanzitutto sgomberare il campo da ogni deriva identitaria o localista, farla finita con la stucchevole retorica neoborbonica che ha accompagnato i 150 anni dell’unità del paese e sgomberare il campo dalle letture antimoderniste e decrescitiste che troppo spesso risuonano nelle lotte del Sud Italia.
Detto altrimenti, la lotta contro i processi di razzializzazione del Mezzogiorno, non può essere un terreno di battaglia arretrato come mera possibilità di capovolgere le gerarchie, come rivendicazione di una specificità che aspira ad una migliore collocazione all’interno del rapporto Nord-Sud; non ci basta diventare un po’ più bianchi – magari prendendo le distanze dalla Grecia, come tentano di fare i tecnocrati al governo – se poi questo vuol dire lasciare intatti gli effetti della frammentazione che la Whitheness continuamente ripropone. La razzializzazione e la lotta contro il razzismo sono un problema che riguarda tutte e tutti, razzializzati e non, e per combatterlo occorre costruire un terreno di lotta complessivo.
Non è dunque insistendo su una differenza, per altro costruita ad hoc per gestire la subordinazione e lo sfruttamento del Mezzogiorno, che si potranno spezzare le gerarchie costruite dentro i processi di razzializzazione. Né può essere spazio di resistenza conflittuale il ritorno alla terra come momento di recupero e valorizzazione di un’esistenza precaria. In un mondo informatizzato, mediatizzato e attraversato dalla dimensione cognitiva del lavoro e delle vite, “i bui pomeriggi” dell’esistenza di un precario o di un disoccupato si fanno spazio da agire in positivo, luogo della rottura rivoluzionaria. I protagonisti della primavera araba, così come gli indignados spagnoli o i greci di piazza Syntagma, sono giovani precari e disoccupati, scolarizzati e informatizzati che nella crisi hanno aperto un campo di trasformazione radicale proprio a partire dalla specifica condizione di precari e disoccupati cognitivi. Hanno cioè agito in chiave rivoluzionaria la propria condizione d’esistenza facendo di saperi, tecnologie informatiche e comunicazione gli strumenti della loro rivolta. I giovani tunisini, piuttosto che tornare alla terra, si sono in massa spostati nella capitale e a partire dall’esperienza della Kasbah occupata hanno sperimentano forme di vita e di esistenza alle quali, hanno detto, non vogliono più rinunciare (Curcio e Roggero 2012). È dunque solo assumendo uno sguardo più complessivo e aperto sul mondo, piuttosto che chiudersi in un luogo o un territorio, che può darsi la possibilità del cambiamento.
Nelle lotte sul terreno della razzializzazione del Mezzogiorno, assumere uno sguardo più complessivo vuol dire innanzitutto andare oltre l’essenzializzazione e interrompere la narrazione di un Sud omogeneo e astorico, sempre uguale a se stesso. È questa la bussola che deve guidare un agire critico che vuole valorizzare le specificità del Mezzogiorno. Il Sud, o più precisamente i Sud (Festa e Martinico 2012) esistono piuttosto dentro precisi rapporti produttivi attraversati da una narrazione di razzializzazione che insiste proprio sulla separatezza come possibilità per la subordinazione e lo sfruttamento.
Oggi che lo spazio della subordinazione e dello sfruttamento si dà come narrazione di economie – quelle dell’Europa mediterranea dei PI(I)GS – corrotte e parassitarie e la separatezza insiste sull’altro dell’Europa produttiva e morigerata guidato dalla Germania, fare della lotta contro la razzializzazione del Mezzogiorno uno spazio di soggettivazione resistente capace di produrre generalizzazione, vuol dire necessariamente costruire un piano politico transnazionale. Solo così si potranno evitare le ricadute nazionaliste o localiste, di cui, lo stesso razzismo è, peraltro, una componente. Non si tratta ovviamente di negare la specificità dei luoghi sconfessando i processi specifici che hanno attraversato e attraversano il Mezzogiorno d’Italia, anzi, è una narrazione questa che va assolutamente recuperata, non darne conto costituisce piuttosto un problema. Tuttavia, lo spazio di soggettivazione critica e le lotte per il comune contro i processi di razzializzazione nel Mezzogiorno d’Italia non possono che essere concepiti all’interno di uno spazio più ampio in cui costruire ponti e processi di traduzione delle lotte tra le diverse sponde del Mediterraneo; o detto altrimenti, uno spazio in cui tenere insieme nella specificità delle singole esperienze le lotte contro l’austerity che stanno proficuamente attraversato il bacino del Mediterraneo dentro la crisi.
Dentro al crisi, allora, il nodo della ricomposizione delle lotte ci pone l’urgenza della rottura dei dispositivi di gerarchizzazione sul terreno della razza a partire dalla costruzione di un nuovo spazio politico più complessivamente mediterraneo. È lo spazio delle lotte che costruisce una nuova Europa, spezzando la narrazione del Mezzogiorno in bilico tra Europa e Africa. “La nuova Europa comincia dal Maghreb”, scriveva nel 2011 il collettivo edu-factory[9] a margine di un’assemblea a Parigi che aveva visto la partecipazione di studenti e precari europei ma anche tunisini, americani, cileni e giapponesi. Lo spazio politico e delle lotte che vogliamo costruire comincia dal Maghreb, attraversa il Mediterraneo verso le sponde dove affacciano i PI(I)GS delle economie “corrotte e improduttive” ma anche delle più significative esperienze di resistenza contro i programmi d’austerity, e punta a ricomprendere l’intero spazio europeo. Costruire processi di traduzione tra le lotte, diverse e specifiche, che attraversano oggi il Mediterraneo, appare la sola posta in palio possibile dentro i processi di razzializzazione del Mezzogiorno e la crisi.
Da qui, dalla “leva mediterranea” bisogna ripartire per distruggere i dispositivi di frammentazione che tentano di separare su base nazionale e lungo le gerarchie costruite sul terreno della razza ciò che è in comune, cioè le vite di precari italiani, greci, spagnoli, portoghesi, tedeschi, olandesi, ecc.. Ed è attraverso questa leva che diventa possibile ridisegnare la nuova Europa innervata dai movimenti e dai conflitti.
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[1] Si veda: Zero81, Questione di mentalità, 7 settembre 2012, http://www.zer081.org/2012/09/07/questione-di-mentalita/.
[2] Benchè l’Irlanda si trovi fuori dal mediterraneo, possono valere anche in questo caso molte delle considerazioni che funzionano per i paesi dell’Europa mediterranea. L’Irlanda, porta infatti con sé il peso di un lungo processo di razzializzazione che affonda le radici in quella stessa esigenza di evidenziare il primato della Gran Brategana agli albori del capitalismo.
[3] L’espressione è attribuita a Goethe che l’avrebbe coniata per descrivere Napoli e i napoletani ed è stata ripresa da Benedetto Croce che ha così titolato un volume sulla città partenopea.
[4] Si veda l’affascinante ricostruzione storica di Peter Linebaugh e Marcus Rediker in I ribelli dell’Atlantico. La storia perduta di un’utopia libertaria (Feltrinelli, 2004)
[5] Per una prospettivo teorico-politica che si propone di infrangere il tabù della razza, riportandola al centro del discorso su razzismo e antirazzismo, mi permetto di rimandare a Curcio, Mellino 2012.
[6] Cfr. M. L. Salvadori, Il mito del buongoverno. La questione meridionale da Cavour a Gramsci, Einaudi, Torino 1977.
[7] Per una ricostruzione del clima politico e intellettuale di quegli anni si veda Vito Teti, La razza maledetta. Origini del pregiudizio antimeridionale, manifestolibri, Roma 1993
[8] Alfredo Niceforo, La delinquenza in Sardegna 1897; Id., L’Italia barbara contemporanea (studi e appunti) 1898; Id., Italiani del nord e italiani del sud 1901.